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Dedollarizzazione

Vi spiego gli effetti delle mosse di Bce e Fed su euro e dollaro

Il Taccuino di Polillo fra mercati e politica con gli effetti sulle valute dopo le mosse di Fed e Bce Il primo effetto della riunione contemporanea della Fed e della Bce è stato un forte balzo del dollaro sia nei confronti dell’euro che del renminbi cinese. Nel prima caso la rivalutazione è stata, di un…

Il primo effetto della riunione contemporanea della Fed e della Bce è stato un forte balzo del dollaro sia nei confronti dell’euro che del renminbi cinese. Nel prima caso la rivalutazione è stata, di un solo colpo, subito dopo le relative notizie, del 2 per cento. Con chiusura a quota 1,1567: sui massimi dallo scorso 29 maggio. Il rafforzamento più consistente dal 26 giugno 2016. Stessa sorte è toccata allo yuan che ha perso lo 0,53 per cento. In particolare la Banca popolare cinese ha fissato il cambio con il biglietto verde, contro il renminbi a 6,43 contro i 6,396 del giorno precedente.

Questa piccola turbolenza valutaria riflette le nuove valutazioni del mercato. Le previsioni sono per un dollaro destinato a rivalutarsi ancora (si parla di una forchetta compresa tra 1,1450 e 1,151 nei confronti dell’euro) in ragione della maggior forza finanziaria degli Stati Uniti, a seguito di una politica monetaria, comparativamente, più restrittiva. La Fed, infatti, non solo ha deciso di aumentare i tassi di interesse per il 2018 (ancora due rialzi), ma di prospettarne – secondo i rumors del mercato – altre tre nel 2019. L’attuale differenza tra i tassi praticati dalla Fed è quelli della Bce è pari a circa 2 punti percentuali. Le successive strette dovrebbero far aumentare i differenziali. Com’è noto, infatti, Francoforte ha deciso di ridurre progressivamente l’acquisto di titoli del debito pubblico fino ad esaurimento (dicembre 2018). In compenso i tassi d’interesse dovrebbero rimanere immutati, fino all’estate del 2019 e l’acquisto di titoli limitato al solo rinnovo dei bond posseduti.

Il mercato dei capitali ha compreso il segnale e trasferito risorse oltre Atlantico, nell’attesa di maggiori rendimenti. Secondo gli analisti di Société Générale per vedere un recupero dell’euro servono dati macroeconomici dell’Eurozona più forti e un contesto politico più calmo in Italia. Parafrasando il grande Totò, si potrebbe dire che queste condizioni sono a “prescindere”. Ma se esse vogliono avere un connotato negativo nei confronti dell’intesa raggiunta da Mario Draghi, non si può essere d’accordo. Naturalmente esiste una scuola “filo tedesca” che ritiene che il Presidente della Bce abbia ecceduto. In Italia se ne è fatto più volte portavoce Mario Monti. L’idea è quella che solo il “rigore” possa indurre a comportamenti virtuosi. Un po’ come quel padre che, per educare i figli, usa la cinta dei pantaloni.

Se tuttavia consideriamo i dati economici, questa tesi non ha un grande fondamento. Negli Stati Uniti, il ritmo di crescita è sostenuto e l’inflazione ha rialzato la testa, superando la soglia simbolica del 2 per cento. Il mercato del lavoro segnala fenomeni di irrigidimento, con un tasso di disoccupazione al limite del livello frizionale: la spia rossa che dimostra l’esistenza di strozzature nell’offerta. In Europa la situazione è completamente diversa. Esclusa la Germania, che può contare su un attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, pari all’8,2 per cento e quindi del forte traino delle esportazioni, il resto dell’Eurozona, salvo altre limitate eccezioni (Lussemburgo, Olanda e, in parte Italia) vive in una condizione completamente diversa.

Il tasso medio di disoccupazione, esclusi i Paesi indicati, ma non l’Italia, è ancora troppo forte. Più vicino alle due che non ad una sola cifra. Il tasso di crescita è aumentato, rispetto agli anni precedenti. Ma in questo caso il traino della Germania è stato determinate. Basta visitare qualche regione del Nord Italia e vedere quante aziende sono solo “terziste”. Producono parti di ricambio per le grandi imprese meccaniche con il brand “made in Germany”. Il deflatore dell’Eurozona si avvicina all’1,9 per cento, ma soprattutto a causa di quei beni che non fanno parte dell’inflazione core: il parametro che dovrebbe contare ai fini della politica monetaria. La deflazione degli anni passata è, in larga misura superata, ma rimangono code velenose. Imporre un’ulteriore stretta creditizia avrebbe rafforzato o indebolito quei dati macroeconomici indicati dagli analisti di Société Générale?

Ci sembra allora di poter dire che Mario Draghi di fronte ad un dilemma ha scelto la strada più giusta. Poteva premiare il mercato finanziario, alzando i tassi di interesse. Ma a discapito dell’economia reale. O fare l’opposto. Alla fine è, giustamente, prevalsa questa seconda considerazione. Che forse penalizza un po’ le banche, che subiscono un piccolo effetto di spiazzamento nei confronti dei fondi di investimento esteri. Ma in compenso contribuisce a sostenere il ciclo della produzione. E’ infatti evidente che un aumento dei tassi di riferimento avrebbe determinato una stretta del credito nei confronti di tutti gli operatori economici. Ed in un Paese, come l’Italia, in cui il credito bancario è linfa vitale per un sistema di piccole e piccolissime imprese, non sarebbe stato, certo, una manna.

La borsa, comunque, non ha apprezzato queste sottili distinzioni. Il calo generalizzato, salvo qualche eccezione, ha portato ad una caduta dell’indice dell’1,32 per cento. In sofferenza anche le altre borse europee. Sebbene gli spread sui titoli italiani siano scesi a 221 punti base, con una flessione del 4 per cento: la più forte rispetto agli altri titoli europei. Esclusa l’Austria.

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