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Single limb, ecco il vero rischio per i titoli di Stato con il Mes. L’analisi di Polillo

Come decidere dell’eventuale hair cut (rimborso limitato) o del possibile allungamento delle scadenze dei titoli di Stato, nella remota (?) possibilità di una ristrutturazione del debito? Single o double limb? L'analisi di Gianfranco Polillo

Com’era, forse, prevedibile fin dall’inizio, l’Eurogruppo ha respinto ogni ipotesi di modifica sostanziale del Trattato relativo al Mes: il Fondo salva Stati. Si continuerà a discutere del dettaglio. In particolare degli annessi tecnici. Problema, tuttavia, non secondario.

Il punto più controverso riguarda la clausola del “single o double limb”. Vale a dire il regime di garanzia a favore dei sottoscrittori dei titoli di Stato. Come decidere dell’eventuale hair cut (rimborso limitato) o del possibile allungamento delle scadenze, nella remota (?) possibilità di una ristrutturazione del debito? Con il “single limb”, basterebbe il voto su una singola partita di titoli per estendere le relative decisioni all’intero ammontare del debito pubblico. Con il “double limb”, la decisione sarebbe più lunga e defaticante. Coinvolgerebbe, di volta in volta, gli effettivi titolari dei titoli oggetto della decisione. Indubbiamente una maggiore garanzia.

Per capire la portata della distinzione, basta una semplice simulazione. Immaginiamo che un hedge fund, avendo colto tutte le debolezze della situazione finanziaria di un Paese, acquisti una partita di titoli con l’idea di precostituire la maggioranza prevista dalle regole del “single limb”. Ed al tempo stesso ne venda allo scoperto una quantità maggiore, non aventi le stesse caratteristiche. Quando scatterà l’ora X, voterà a favore di un rimborso più limitato, subendo le relative perdite. Ma in compenso guadagnerà molto di più sulle vendite allo scoperto. Quanto avvenne nel 1992, con le grandi speculazioni contro la lira o la sterlina, ad opera di Soros, dovrebbe essere un insegnamento su cui, ancora oggi, si dovrebbe meditare. Lo sforzo di rendere più credibile l’operazione di ristrutturazione del debito, come spinta ulteriore per indurre i Paesi meno virtuosi ad accelerare i necessari cambiamenti, può essere comprensibile. Ma, come nel gioco del poker, la puntata può essere rischiosa. Ed è quindi bene tenerne conto.

Resta, tuttavia, il fatto che l’impianto del Mes rimane quello che è. E con esso la filosofia di fondo che lo ispira. Bene il tentativo di costruire una rete di sicurezza che limiti l’eventuale contagio, come avvenne nel 2011 con la Grecia. Ugualmente positivo il fatto che l’eventuale intervento a favore di quelle banche, che fossero colpite dalla crisi non comporti più un doppio passaggio. Che sia cioè il Fondo a finanziarle direttamente senza prestare prima i soldi allo Stato di appartenenza. Per poi farli rifluire nel capitale dell’Istituto di credito da risanare. Anche se, nell’immediato, resta il problema del “cui prodest?”. Leggi, in filigrana: Commerzbank e Deutsche Bank. Mentre le principali banche italiane hanno dovuto fare salti mortali per ridurre il peso dei loro non-performing loan.

Tutto giusto, come del resto si sforzano di dimostrare gli europeisti più accaniti. Che considerano ogni riflessione critica e disincantata una sorta di attentato ai sacri principi del vivere comune. Come se essere europeisti comporterebbe, come si diceva una volta per i comunisti, portare il cervello all’ammasso. Rifiutare la patente dell’integralismo, significa poter vedere il lato oscuro della forza. Il limite di fondo del Mes è quello di risuscitare il Fiscal compact, come plancia di comando della politica economica. Basta guardare a uno degli annessi che accompagna le norme del Trattato. In esso sono, nuovamente contemplati, tutti i parametri di quell’armamentario. Vi si parla di tutto, meno che del problema della crescita. Salvo poi retoriche enunciazioni di principio, nelle sedi auliche dei grandi dibattiti politici.

Siamo soprattutto dispiaciuti per Roberto Gualtieri. Che condusse, come presidente della Commissione del Parlamento europeo (Problemi economici e monetari) una battaglia vittoriosa contro il suo inserimento nell’ordinamento europeo. Ed ora, invece, come ministro dell’Economia, se lo vede nuovamente sbattuto in faccia. Ed è anche costretto a difenderne la portata. Per quanto ci riguarda, siamo rimasti alla vecchia posizione di Romani Prodi, quando nella famosa intervista a Le Monde, nel 2002, come Presidente della Commissione europea, lo definì “stupido, ma necessario”. Omettendo, tuttavia, di dire per chi era necessario. Forse per Paesi come la Germania e l’Olanda, allora (oggi meno), con il vento in poppa, grazie al traino delle esportazioni. Ma per un Paese come l’Italia?

Dimentichiamo forse che dal 1995 – dati Ocse – la sua stagnazione è permanente? Ultima, non solo in Europa, ma tra tutti i Paesi più avanzati. Peggio, solo alternativamente, il Brasile, l’Argentina e la Turchia. A queste obiezioni si risponde invocando la necessità di riforme. Cosa sacrosanta. Ogni anno, allegata alla documentazione che si invia a Bruxelles, è il “Programma nazionale di riforme”. Il cui acronimo PRN non è nemmeno indicizzato, a dimostrazione di quanto sia importante, su Google. Un indigesto librone di centinaia di pagine, compilato di malavoglia dai diversi Ministeri, sotto la regia del Ministero dell’economia. Una delle tante cose inutili che fa gioire le burocrazie di Bruxelles.

La crescita di un Paese dovrebbe essere affidata a queste contorte elucubrazioni. Ridicolo. Naturalmente le riforme sono indispensabili. Ma per realizzarle occorre innanzitutto una grande volontà politica – cosa essenziale e determinante – quindi le risorse necessarie. Le riforme non sono altro che investimenti per il futuro. E, come tutti gli investimenti, richiedono preventivi finanziamenti. Ma se il Patto di stabilità punta tutto sul contenimento del deficit e non su un tasso di sviluppo che sia compatibile con la progressiva riduzione del rapporto debito/Pil, il corto circuito diventa inevitabile. Il Pil non cresce, il debito aumento, la gente si incazza e finisce per abbracciare quel populismo, che tanto orrore genera nelle élites.

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