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Mes

Perché sul Mes critico Salvini e pure alcune parti del trattato. L’opinione di Cazzola

Le modifiche al trattato Mes e le polemiche fra Salvini e Conte commentate dall'editorialista Giuliano Cazzola

Rimango della mia idea: la campagna forsennata di Matteo Salvini contro il Mes è l’ennesima prova dell’irresponsabilità di un leader che non esita – per motivi di consenso – a mentire anche a costo di mettere in grave difficoltà il Paese, non solo sul piano della  sua credibilità internazionale, ma anche su quello assai più delicato degli interessi reali dei cittadini. Non si va in giro a raccontare che il risparmio degli italiani è in pericolo, perché non è vero; non lo è stato in un passato recente e continuerebbe a non esserlo in conseguenza delle modifiche concordate sul funzionamento del Meccanismo di stabilità. Il vero pericolo che i risparmiatori hanno corso (e che si potrebbe ripresentare in un prossimo futuro) è stato un altro: quello prodotto dalle politiche dissennate del governo giallo-verde nelle sue polemiche con la Ue e nella minaccia di non rispettare le regole (una linea di condotta inutilmente parolaia a cui è sempre seguita una pubblica ‘’calata di brache’’). Seguiamo l’iter della polemica. Dapprima, il Capitano finge (?) di cadere dalle nuvole quando apprende che è pronta una bozza che modifica il c.d. Fondo Salva Stati. Dichiara di non saperne nulla e accusa Conte di essersi recato, di notte, a Bruxelles a firmare in gran segreto quell’atto di alto tradimento verso l’Italia. Subito gli dimostrano che non solo quella trattativa era stata portata avanti da un ministro (Giovanni Tria) dell’esecutivo di cui lui era vice presidente del Consiglio, ma che del tema si era discusso più volte in Parlamento, tanto da assegnare al governo un mandato a negoziare, sulla base di risoluzioni presentate e votate dalla maggioranza che sosteneva il governo Conte 1.

In particolare la risoluzione Molinari (Lega) – D’Uva (M5S) approvata dalla Camera il 19 giugno scorso ( col voto della precedente maggioranza) impegnava il governo ‘’ad opporsi ad assetti normativi che finiscano per costringere alcuni Paesi verso percorsi di ristrutturazione (del debito, ndr) predefiniti ed automatici, con sostanziale esautorazione del potere di elaborare in autonomia politiche economiche efficaci’’ e più specificamente, in ordine alla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità, a non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale’’. Inoltre il governo era invitato ‘’a promuovere, in sede europea, una valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell’unione economica e monetaria, riservandosi di esprimere la valutazione finale solo all’esito della dettagliata definizione di tutte le varie componenti del pacchetto, favorendo il cosiddetto « package approach», che possa consentire una condivisione politica di tutte le misure interessate, secondo una logica di equilibrio complessivo’’.

Infine – ecco il rampino a cui si attaccano oggi gli spin doctors di Salvini:  ‘’a render note alle Camere le proposte di modifica al trattato Esm, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato’’. Questo è quanto rimane  ‘’di tanta speme’’ della Lega: una questione di metodo (da non sottovalutare, comunque), perché  – ad avviso di chi scrive – è stato ampiamente dimostrato – ovviamente con i limiti di un negoziato – che le altre condizioni sono state rispettate. E comunque sarà la nuova maggioranza a giudicare. Ad essere onesti non sono del tutto infondate le critiche riguardanti le procedure, anche perché rimane l’impressione che il governo stia arrivando — ormai in zona Cesarini — a chiedere al Parlamento di pronunciarsi. Per capire meglio tutta la questione è di aiuto il Dossier prodotto dal Servizio Studi del Senato, dove vengono fatti notare alcuni aspetti che non hanno trovato il giusto rilievo in un dibattito sgangherato e strumentale. Premesso che per sottrarsi ai vincoli connessi al prestito è sufficiente non chiederlo, ‘’le decisioni relative alla concessione di assistenza finanziaria agli Stati aderenti sono adottate dal Consiglio dei governatori secondo la regola del comune accordo (unanimità dei membri partecipanti alla votazione, senza contare le eventuali astensioni). Al fine di rendere più flessibile il sistema decisionale in circostanze straordinarie – è precisato nel Dossier –  in cui appare minacciata la stabilità finanziaria ed economica della zona euro, è previsto il voto a maggioranza qualificata dell’85% del capitale, qualora la Commissione e la Bce evidenzino la necessità di decisioni urgenti. In tali casi, in cui viene meno la regola del comune accordo, ai fini della decisione diviene rilevante il numero di diritti di voto di ciascun Stato aderente, proporzionale alla quota di partecipazione al capitale versato. Pertanto, in base all’attuale distribuzione dei diritti di voto Germania, Francia e Italia mantengono la possibilità di determinare, con la propria scelta individuale, l’esito delle votazioni a maggioranza qualificata previste nei casi d’urgenza’’. In sostanza l’Italia con il suo 17,7%  si porterebbe appresso una sorta di diritto di veto.

Occorre, poi, sottolineare con forza che l’insostenibilità del debito non può basarsi su di un giudizio astratto, emesso sulla base di parametri concordati. Sono i mercati a decretarla quando gli investitori cercano in tutti i modi di liberarsi di quei titoli e si guardano bene dall’acquistare nuove emissioni se non a tassi, questi sì, insostenibili. Se il debito sovrano di un Paese è divenuto non più sostenibile, non risulta dall’applicazione di una formula matematica, ma dai listini di Borsa e dallo spread. E i primi ad accorgersene sono proprio i risparmiatori di quel Paese.

Ecco perché considero discutibile la proposta – contenuta nella revisione del Mes – di ‘’portarsi avanti nel lavoro’’. ‘’Con la riforma dell’articolo 3 del Trattato – viene ben spiegato nel Dossier – verrebbe specificato che, ove necessario per prepararsi internamente a poter svolgere adeguatamente e con tempestività i compiti attribuitigli dal Trattato, il Mes può seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, compresa la sostenibilità del debito pubblico, e analizzare le informazioni e i dati pertinenti’’.  Tale attività sarebbe svolta in via preventiva, indipendentemente da richieste di sostegno e a uso esclusivamente interno, per mettere poi il Mes nelle condizioni di rispondere tempestivamente alle eventuali richieste, o comunque successivamente alla formale presentazione di una richiesta di supporto finanziario. In quest’ultimo caso, verrebbe specificato che la valutazione è effettuata su basi metodologiche trasparenti e prevedibili, pur consentendo un margine sufficiente di discrezionalità nel giudizio, coinvolgendo, se opportuno e possibile, il Fmi’’.

In questa attività preliminare è insito un pericolo effettivo. Non ha alcun senso predisporre – in astratto – un archivio in cui siano contenute delle diagnosi di ‘’possibili malanni’’ in cui potrebbe incorrere uno Stato, che, in quel momento è in grado di tirare avanti da solo. Se venisse reso noto – e lo sarebbe – un elenco preventivo della insostenibilità teorica dello stock di un debito sovrano, nel tempo del batter d’ali di una farfalla l’insostenibilità diventerebbe effettiva, grazie alla fuga degli investitori. Sarebbe questa una modifica inaccettabile? Si tratterebbe soltanto di una correzione del modus operandi.

 

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