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Bce

Perché serve una riforma della Banca d’Italia. L’analisi di Bagnai (Lega)

L'analisi dell'economista Alberto Bagnai (Lega), presidente della commissione Finanze del Senato

Il disegno di legge di riforma della Banca d’Italia non è ancora stato assegnato: è al drafting per la compilazione (i disegni di legge vengono rivisti, corretti e impaginati da uno speciale servizio i cui funzionari evidenziano eventuali problemi di coordinamento legislativo, di omogeneità stilistica e di contenuto, oltre agli inevitabili refusi, ecc.). Sarà assegnato, così mi è stato detto da chi ha il compito di farlo, alla mia Commissione, che è competente per materia. Nel frattempo è stato risolto un altro problema di tecnica parlamentare, quello dell’acquisizione del necessario parere della Bce, rispetto al quale il Regolamento del Senato non prevede una procedura esplicita.

Apro e chiudo una parentesi per evidenziare che la mancanza di una procedura normata dal Regolamento per il compimento di atti dovuti come l’acquisizione dei pareri della Bce è una plastica rappresentazione del disinteresse degli “europeisti” per l’Europa (isomorfo a quello dei “buonisti” per la bontà: essere europeisti non è volere l’Europa, ma volersi sentire europei, cioè migliori dei propri concittadini italiani, esattamente come essere buonisti non è volere la bontà, ma volersi sentire buoni, cioè migliori dei propri concittadini italiani). Va anche detto che normalmente gli atti legislativi per i quali questo parere è richiesto sono stati emanati per decreto legge (pensate ad esempio alle varie riforme del credito, come quella delle popolari e quella delle Bcc), e quindi l’autorità nazionale che doveva acquisire il parere era il Governo. I casi in cui il Parlamento si è trovato a dover acquisire un parere, per una legge di iniziativa parlamentare, sono pochi e forse nulli, il che spiega perché i Regolamenti tacciano sul punto. Aggiungo che i Governi di solito non hanno richiesto il parere preventivamente (cosa della quale la Bce si è più volte lamentata, e in fondo a ragione: che mi chiedi a fare il parere se intanto emani un atto che entra immediatamente in vigore?). Anche questa notazione tecnica la mettiamo in conto al rispetto che gli “europeisti” hanno per l’Europa: le uniche regole che interessa loro rispettare sono quelle di bilancio, purché sfilino soldi dalle vostre tasche e mettano in difficoltà l’attuale Governo. Su tutte le altre sono sempre stati più elastici (lo testimonia il “tesoretto” di procedure di infrazione che abbiamo ereditato).

Quanto ai contenuti del ddl, i meno disattenti si ricorderanno di avermeli sentiti anticipare in aula il 6 marzo scorso (non fatevi distrarre dalla mia eloquenza musicale: le parole che dico non le estraggo a caso da un’urna, solitamente hanno un perché, e oggi capite il perché di queste):

Avevo detto che indipendenza non significa autonomia, ed eccone la dimostrazione pratica: anche se a molti spiace (gli sono vicino nel loro dolore), e pur con una quantità di condizionamenti sui quali qui non mi soffermo (anche se dovreste esserne consapevoli), pare che i Parlamenti, ancora, abbiano potere legislativo, e in particolare si mormora che siano loro (ancora per un po’) a delineare il quadro normativo all’interno del quale operano i vari organi dello Stato, incluse le Autorità, che sono indipendenti sì (e poi vediamo bene che cosa questo significhi nel caso specifico), ma non autonome. Il potere di dotarsi di leggi, di normare il proprio funzionamento, e di giudicare se stessi, non è indipendenza: è qualcos’altro (autonomia, autocrinia, autodichia, ecc.). Indipendenza è scegliere i propri obiettivi e il modo di realizzarli: e questo potere, alla nostra Banca centrale nazionale, nessuno vuole sottrarlo (anche perché non lo ha più da tempo).

Avevo anche chiarito che nei paesi che piacciono tanto a certi italiani (quelli meno sensibili all’interesse del loro Paese), le cose funzionano in un certo modo. Quale? Bè, lo sapete: a me piace basarmi sui fatti, e i fatti sono questi:

  1. Austria
  2. Belgio
  3. Cipro
  4. Estonia
  5. Finlandia
  6. Francia
  7. Germania
  8. Grecia
  9. Irlanda (con spiegazione)
  10. Italia
  11. Lettonia
  12. Lituania
  13. Lussemburgo
  14. Malta
  15. Olanda
  16. Portogallo
  17. Slovacchia
  18. Slovenia
  19. Spagna

(…questa è l’informazione di servizio, fattuale, che ci aspetteremmo da quelli che frignano perché il mercato li sta spazzando via…)

La lista rinvia agli Statuti delle Banche centrali nazionali dei 19 paesi dell’Eurosistema, cioè di quel sottoinsieme di paesi dell’Unione Europea (che in quanto tali appartenengono al Sistema Europeo delle Banche Centrali) la cui valuta è l’euro. Una lettura appassionante per la maggior parte di voi, suppongo. Non vi dico quanto lo sia stata per me! Per evitarvi lunghe notti insonni, vi faccio una rapida sintesi delle modalità di costituzione degli organi di governo delle Banche Centrali Nazionali (BCN), e in particolare del Direttorio (Governing BoardComité de directionDirektorium, ecc.), partendo da quanto succede a casa nostra.

In Italia il percorso è tracciato dall’art. 18 dello Statuto e si divide in due: un binario è seguito per la nomina del Governatore, e un altro per la nomina degli altri membri del Direttorio (forse lo saprete, se ne è parlato molto sui giornali). Il Governatore viene nominato “con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore” (art. 18(1)). L’oggetto misterioso qui è il Consiglio superiore. Il Consiglio superiore è normato dall’art. 15 dello Statuto, ed è composto dal Governatore e da 13 consiglieri, nominati dall’assemblea su proposta di un comitato nomine costituito all’interno dello Statuto.

Nel caso della nomina del Governatore, il Consiglio ha funzione meramente consultiva (non risulta che il suo parere sia vincolante, mentre lo è la deliberazione del Consiglio dei Ministri). Sono però più penetranti i suoi poteri per quanto attiene agli altri membri del Direttorio. L’art. 18(3) stabilisce che “Il Consiglio superiore, su proposta del Governatore, nomina il Direttore generale e i Vice Direttori generali”. Vero è che ai sensi dell’art. 18(5) “Le nomine, i rinnovi dei mandati e le revoche del Direttore Generale e dei Vice Direttori generali debbono essere approvati con decreto del Presidente della Repubblica promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri di concerto col Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Consiglio dei ministri.”, e quindi il Governo deve in qualche modo essere coinvolto, ma i pesi sono rovesciati: a differenza di quanto accade per il Governatore, nella nomina degli altri membri del Direttorio è il Consiglio dei Ministri, non il Consiglio superiore, ad avere funzione consultiva.

Quindi, tirando le fila del discorso: la maggioranza nell’organo di gestione è determinata da un Consiglio superiore costituito per cooptazione (con un passaggio formale attraverso un voto in assemblea). Parlamento: non pervenuto. Società civile: non pervenuta.

Si potrebbe argomentare che una tale blindatura sia necessaria per garantire l’indipendenza. Se così fosse, una simile governance per cooptazione sarebbe lo standard nei paesi dell’Eurosistema. Ma non è così. Un’analisi degli statuti non permette di ravvisare altri casi di nomina del Direttorio da parte di un organo che nomina se stesso (ovviamente sto semplificando, ma l’essenza è questa), con l’unica possibile eccezione della Grecia, che un po’ si avvicina a questo schema (nomina da parte del Consiglio generale, a sua volta parzialmente eletto dall’Assemblea dei soci).

In effetti, nei restanti 17 casi (tolte quindi Italia e Grecia) i modelli sono i più svariati, sostanzialmente riconducibili però a poche categorie:

1) direttorio di prevalente nomina governativa, come in Austria (art. 33 dello Statuto), Cipro (art. 13 dello Statuto; n.d.r.: la versione disponibile online non mi pare sia aggiornata, devo incaricare i tecnici di verificare che sia tuttora valida), Francia (art. L.142-8), Irlanda (come esposto nella brochure che vi ho allegato), Lussemburgo (art. 12(2)), Malta (art. 8 e 9), Olanda (art. 12(2)), Portogallo (art. 27), Spagna (art. 24).

Nota bene: formalmente c’è quasi sempre un passaggio presidenziale (fanno eccezione, ad esempio, i direttori della Banca Centrale di Malta, nominati direttamente dal primo ministro, o quelli della Banca Centrale del Portogallo, nominati direttamente dal Consiglio dei ministri). Quando parlo di “nomina governativa” intendo dire che in ogni caso è il Governo (o addirittura un singolo ministro) a designare e proporre i nomi. Ad esempio in Portogallo e Spagna la proposta è del Ministro delle finanze (in Spagna il MEF propone solo i direttori e non il governatore). Quanto formale o sostanziale sia il potere del Capo dello Stato nei singoli paesi non saprei dirvelo e dipende naturalmente dagli assetti costituzionali formali e materiali di ognuno di essi. Fatto sta che in metà degli altri 18 paesi dell’Eurosistema il Governo è direttamente (e in alcuni casi esclusivamente) coinvolto nella scelta del Direttorio, senza che nessuno ravvisi in questo una lesione del principio di indipendenza. Anche questa affermazione va qualificata: ci sono casi, come quello olandese, in cui la shortlist da sottoporre alla nomina (regia, in quel caso) viene effettuata da un Consiglio di sorveglianza, e quindi non dal Governo. Solo che il Consiglio di sorveglianza prevede un membro di nomina governativa, e gli altri eletti dall’assemblea degli azionisti, e… lo Stato è azionista unico!

2) direttorio di prevalente nomina parlamentare (anche qui diretta o indiretta), come in Estonia (art. 10), Finlandia (art. 13), Lettonia (art. 22), Lituania (art. 10), Slovacchia (art. 7) e Slovenia (art. 35-37). Anche qui ci sono diverse sfumature: si va dalla Slovenia dove il Parlamento elegge su proposta del Presidente della Repubblica, alla Finlandia, dove i membri del direttorio diversi dal Governatore (nominato dal Capo dello Stato) sono eletti da una Commissione di supervisione a sua volta eletta dal Parlamento.

3) sistemi “misti”, come quello tedesco (tre membri di nomina governativa e tre di nomina parlamentare, art. 7), o quello belga, in cui i nomi sono proposti da un “Consiglio di reggenza” (art. 23), che però non è totalmente autoreferenziale, poiché prevede cinque membri di nomina governativa, due proposti dai sindacati e tre dalle associazioni datoriali e della società civile.

Ora, vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che in tutti questi casi, evidentemente, la Bce ha ritenuto che il coinvolgimento del Parlamento, o addirittura del Governo, nella nomina dei vertici, non violasse il principio di indipendenza stabilito dall’art. 7 del Capo III del Protocollo 4 “Sullo statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea”, il quale viene così definito:

“Conformemente all’articolo 130 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dal presente statuto, né la BCE, né una banca centrale nazionale, né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della BCE o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti.”

Qui le sottolineature sono due: quella sui compiti, che ai senso dell’art. 3 dello stesso protocollo sono:

— definire e attuare la politica monetaria dell’Unione;
— svolgere le operazioni sui cambi in linea con le disposizioni dell’articolo 219 di detto trattato;
— detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri;
— promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento.

e quella sul sollecitare o accettare istruzioni. Evidentemente si dà per scontato che in questo, come in consimili casi anche italiani di scelta governativa (AGCOM) o parlamentare (privacy) di membri di una autorità indipendente, la nomina da parte di un organo costituzionale dello Stato non implichi subalternità del nominato alle indicazioni del nominante.

Quindi il nostro provvedimento non è minimamente lesivo dei principi dei Trattati, e ove mai lo dovesse sembrare, sarà la Bce, il cui parere aspettiamo con rispetto, a spiegarci perché un modello di governance che va bene in Germania, in Italia dovrebbe essere lesivo dell’indipendenza. Confido nel fatto che in questa come in altre occasioni la Bce non ravviserà criticità nel lavoro di questa maggioranza.

Comunque, chi deve pronunciarsi è Francoforte: il resto sono chiacchiere da bar.

Qual è il vero punto dolente, alla luce dei pessimi risultati che non possiamo né nascondere sotto il tappeto (impossibile), né attribuire sic et simpliciter alla proverbiale “grande moria delle vacche” di fausta memoria? Il punto è che nessuno vuole intromettersi nel modo in cui la nostra BCN definisce e raggiunge il suo obiettivo di politica monetaria (che in larga misura è è definito dalla BCE: la famosa inflazione al 2%), o svolge più in generale gli altri compiti che le sono attribuiti, né tanto meno nel modo in cui essa svolge le ormai residuali funzioni di vigilanza che le competono. Dobbiamo però chiederci se definire le linee generali di politica finanziaria e creditizia di un paese sia compito del Parlamento o delle autorità indipendenti, cioè se queste autorità abbiano anche funzioni di indirizzo (decidano dove si vuole andare), oltre che di controllo e garanzia (verifichino che non vengano commessi abusi). Il protocollo sul SEBC, in effetti, non prevede fra i compiti la definizione degli indirizzi generali di politica creditizia del paese, e questo spiega perché in un sistema che vuole integrarsi, ma nel quale coesistono modelli molto diversi di sistema creditizio, coesistono anche modelli molto diversi di governance delle BCN.

In altre parole: l’indipendenza è reciproca, come logica vuole e come dovrebbe essere, o a senso unico, come pare sia stata in passato?

Faccio un esempio che conosco bene: la scelta di penalizzare (se non addirittura eradicare) il credito territoriale. Studi recenti come quello di Masera (Community banks e banche del territorio), ma anche un semplice sguardo europeo (non europeista) alla realtà che ci circonda e alle prassi delle economie vincenti, ci dimostrano che questa scelta è antistorica. Ma anche se fosse la cosa più opportuna da fare (e non lo è), chi dovrebbe decidere se andare in questa direzione o meno? Il Parlamento, dove siedono i rappresentanti eletti dei territori, il Governo (che ha la fiducia del Parlamento), o una entità “indipendente” cui simili compiti non sono attribuiti dai Trattati? Voglio essere molto esplicito: a me non piace né un mondo in cui la politica condiziona la vigilanza, né un mondo in cui la vigilanza condiziona la politica. Entrambi questi mondi sono instabili: il primo perché porta ad abusi nella concessione del credito, con conseguenti problemi di sofferenze bancarie e di fallimenti; il secondo perché rischia di indirizzare il sistema creditizio in direzioni divergenti da quelle del sistema Paese e della sua economia reale, che rischiano di essere funzionali solo agli interessi di un organismo burocratico non rappresentativo della comunità nazionale. Dare la colpa di una decina di fallimenti bancari di un certo spessore (un unicum nella storia bancaria di questo paese) agli imprenditori che “sono poco produttivi perché sono troppo piccoli”, e consimili amenità, scollate dall’evidenza empirica e da sostanziosi filoni di ricerca, è una scappatoia sempre meno credibile, e comunque ottiene, come principale risultato, quello di sollevare l’indignazione degli imprenditori e dei risparmiatori (cui i partiti che li rappresentano devono dare risposte).

Per quanto questo possa sembrare controintuitivo, la strada scelta finora per ovviare a questi problemi di commistione, quella della totale autoreferenzialità, in tutta evidenza non li ha risolti. Quindi dobbiamo adeguare il nostro assetto istituzionale. Se la vigilanza necessariamente condiziona la politica, come è in qualche modo inevitabile che sia, allora occorre che al suo interno abbiano voce, come in tutti i paesi civili, anche gli orientamenti generali di indirizzo politico del paese, affinché non si crei uno iato fra istituzioni e cittadini che alla fine si risolve in un unico modo: nella perdita di credibilità delle istituzioni. Succede in Belgio, succede in Finlandia, succede in Germania (in cui, data la rilevanza del credito territoriale, non a caso metà dei componenti del direttorio è nominato dal Bundesrat – la “Camera delle Regioni”, per semplificare – di concerto col Governo).

Perché non dovrebbe succedere anche da noi?

L’unico argomento che ha chi vuole contrastare questa legittima esigenza è il disprezzo verso gli italiani. E, come potete sentire sopra, io la sfida l’ho lanciata: venite, cari, venite in Commissione o in Aula a dirci che gli Italiani (che vi hanno eletto) non si meritano istituzioni con governance di livello europeo perché sono dei pezzenti, dei corrotti, degli Untermenschen! Venite a dirci che questo popolo corrotto e decadente non merita di avere voce in capitolo in una materia, quella creditizia, nella quale (peraltro) le autorità tecniche e indipendenti non hanno un track record brillantissimo! Venite, carissimi, a insultare in pubblico, con resoconto stenografico, i vostri elettori! Tutto vento nelle nostre vele, amici cari. Passare da atteggiamenti tatticistici a una sincera e genuina condivisione dell’esigenza primaria di difendere l’interesse nazionale, facendo le vere riforme strutturali, quelle delle istituzioni che sono determinanti per la competitività del nostro Paese, conviene più a voi che a noi. L’epoca in cui la sfida della competitività si giocava sui salari, cioè sulla pelle della gente, l’avete aperta voi col jobs actin ossequio ai desiderata della Bce, e l’hanno chiusa l’8 marzo 2018 gli elettori. Ora dobbiamo restituire ai lavoratori una vita dignitosa, e occuparci di altri aspetti della competitività: per esempio, l’accesso al credito, i tempi della giustizia, la semplificazione amministrativa. Tutte cose esplicitamente considerate in quelle classifiche come il Doing business, di cui tanto vi riempite la bocca per vilipendere il paese, ma che verosimilmente non avete mai letto con attenzione.

(estratto di un articolo pubblicato su goofyeconomics.blogspot.com)

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