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Perché sarà salutare per l’Europa il ripensamento di Macron. E ora si parli di condivisione del debito in Europa

La retromarcia di Macron forse contribuirà ad arginare il malcontento dei francesi ma di sicuro farà barcollare finalmente gli attuali equilibri europei. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Il ripensamento di Emmanuel Macron forse contribuirà ad arginare il malcontento dei francesi e frenare le violente manifestazioni dei gilet gialli. Di certo creerà più di un problema nei delicati ed incerti equilibri europei.

Le misure annunciate hanno tutte una caratteristica. Saranno a carico di un bilancio dello Stato che da tempo non regge le regole di Maastricht ed, ancor meno, la ghigliottina del Fiscal Compact.  Da circa 10 anni, infatti, il relativo deficit viaggia oltre il 3 per cento, mentre il rapporto debito-Pil, dall’inizio della crisi (2008) è cresciuto con una velocità maggiore di quella italiana, arrivando a sfiorare il 100 per cento. Il tutto, mentre permane un fondamentale squilibrio macroeconomico (la vera differenza con la situazione italiana) rappresentato da un deficit, più o meno costante, delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.

Il 2017 doveva essere l’anno di una svolta definitiva. Per la prima volta il deficit era sceso sotto il 3 per cento (–2,7 per cento) per poi dover diminuire ancora dello 0,3 per cento, l’anno successivo. Nulla di tutto ciò. Le nuove previsioni della Commissione per il 2018 indicano un calo ben più contenuto (0,1 per cento). Che sarà tuttavia compensato da una sua maggiore crescita (- 2,8 per cento) per il 2019. Per avere una sostanziale riduzione (–1,7 per cento) si dovrà attendere, Gilet gialli permettendo, solo il 2020.

Numeri che spiegano, nella loro semplicità, tutto il dramma di una nazione. Il maggior deficit rispetto alle previsioni iniziali derivava sostanzialmente dalla precedente legge finanziaria, che aveva ridotto, seppure in modo contenuto, l’imposta sulle società, abolito quella sulle grandi fortune (sostituita da un’imposta sul patrimonio immobiliare) e distribuito maggiori risorse per il welfare, in una proposizione ritenuta, tuttavia, insufficiente. Il che spiega il malumore crescente che serpeggiava nelle pieghe della società francese. Destinato ad esplodere nel momento in cui, per far quadrare i conti, il Governo ha deciso di aumentare il prezzo dei prodotti energetici (benzina, gasolio, gas ed elettricità) ammantando il tutto con il nobile intento di difendere l’ambiente. La scintilla che ha fatto scoppiare le rivolte.

Il ripensamento di Macron mira, appunto, a ristabilire un certo equilibrio a favore dei ceti meno abbienti. Nel suo discorso alla Nazione, dopo aver fatto mea culpa degli errori commessi (la piscina milionaria creata a spese dei francesi?) ha invitato il governo a concedere un aumento pari a 100 euro al mese, a partire dal 2019, a tutti i lavoratori al minimo,(1.184,93 euro mensili netti) senza incidere sui costi aziendali. Al tempo stesso saranno aboliti i contributi sociali per i pensionati che percepiscono meno di 2.000 euro al mese. Chiede inoltre agli imprenditori di concedere un premio “di fine anno”, che verra defiscalizzato. Stessa sorte per gli straordinari, oltre le 35 ore previste. In compenso l’imposta sulle grandi fortune non sarà reintrodotta, ma i dirigenti delle grandi imprese francesi dovranno versare le loro imposte in Francia.

Il costo delle misure indicate, secondo i primi calcoli, oscillerà tra gli 8 ed i 10 miliardi. Tenendo conto anche del fatto che i ventilati aumenti sui prodotti energetici erano stati congelati da Eduard Philippe, il capo del governo, già nei giorni della protesta. Resta naturalmente il problema delle coperture finanziarie. Ma lo stesso Macron minimizza di fronte allo “stato di emergenza sociale nazionale”. In qualche modo si farà. Che, tradotto, sembra solo prefigurare un ulteriore aumento del deficit, che riporterebbe la Francia oltre il 3 per cento. Una prospettiva destinata a travolgere i fragili equilibri all’interno della Commissione europea.

La verità e che questi non reggono più. E che la soluzione di medio periodo passa inevitabilmente attraverso la cruna dell’ago di una forma più o meno estesa della condivisione del debito. La bestia nera per la Bundesbank e più in generale per l’opinione pubblica tedesca. Ma questo, ormai, è il vero problema. Di cui ciascuno dovrà farsi una ragione, se l’Europa deve e vuole continuare ad esistere. Ci vorrà il tempo e la pazienza necessaria. Ma se Mario Draghi, dopo tanto faticare, è riuscito a far ingoiare il quantitative easing, i cui effetti positivi di ritorno non hanno cento penalizzato l’economia tedesca, perché questo argomento dovrebbe rimanere, per sempre, un ostico tabù?

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