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Come nipponizzare il debito pubblico italiano

L’intervento dell’economista Giuseppe Capuano Secondo i dati Istat, il debito pubblico italiano nel 2017 ammontava a 2.289 miliardi di euro pari a al 131,8% del PIL. Oltre un terzo del debito pubblico italiano è in mano agli stranieri, anche se la quota degli investitori esteri si è ridotta di 2 punti percentuali negli ultimi due…

Secondo i dati Istat, il debito pubblico italiano nel 2017 ammontava a 2.289 miliardi di euro pari a al 131,8% del PIL. Oltre un terzo del debito pubblico italiano è in mano agli stranieri, anche se la quota degli investitori esteri si è ridotta di 2 punti percentuali negli ultimi due anni, passando dal 34% del 2016 al 32% del 2017. Per rendere maggiormente sostenibile il nostro debito e ridurre la nostra esposizione nei confronti delle fluttuazioni e speculazioni dei mercati internazionali, occorrerebbe ridurre tale quota al 15/20% del totale, sui livelli del Giappone.

A tal fine occorrerebbe stimolare e incoraggiare parte dell’ingente risparmio degli italiani, pari a circa il 18% del PIL nel 2016, a confluire verso l’acquisto di titoli di Stato: oggi famiglie e imprese detengono “solo” il 5,2% del totale.

Il caso giapponese potrebbe essere un esempio da seguire in quanto il debito pubblico giapponese è detenuto quasi totalmente al suo interno. Questa dinamica offre sostanzialmente due vantaggi:

1) è tecnicamente inattaccabile dalla speculazione di investitori stranieri;

2) è un contesto finanziario equilibrato in cui sono gli stessi cittadini attraverso i propri risparmi investiti a finanziare la spesa pubblica.

Ovviamente, non ci sono solo pro ma anche i contro che occorre monitorare. Tra gli aspetti negativi dell’enorme “debito pubblico interno” del Giappone c’è la minor liquidità rispetto a un debito aperto a una platea più variegata di investitori. Inoltre, c’è un problema di ordine demografico, d’altronde come in Italia. La gran parte della ricchezza dei risparmiatori giapponesi, come quella italiana, investita nel debito interno è in mano a “baby boomers”, ossia coloro che sono nati tra gli anni ‘50 e ‘60, molti dei quali sono prossimi alla pensione: momento in cui smetteranno di risparmiare e inizieranno a spendere. Fenomeni comunque che, se ben monitorati e gestiti con flessibilità, possono essere ben governati.

Andando con ordine, per meglio contestualizzare la nostra proposta, occorre maggiormente approfondire la descrizione della struttura proprietaria del debito pubblico italiano.

Secondo Banca d’Italia nel biennio 2015-2017 il debito pubblico è salito di 116,3 miliardi (+5,35%) dai 2.173,3 miliardi del 2015 ai 2.289,6 miliardi del 2017. Un periodo nel quale accanto a una crescita costante del deficit nei conti dello Stato si è registrata qualche modifica nella composizione dei sottoscrittori di Bot, Btp e Cct. L’84% del debito è composto da titoli di stato (Fonte: MEF).

Tra il 2015 e il 2017 è raddoppiata la quota di titoli pubblici detenuta dalla Banca d’Italia che ha incrementato di quasi 200 miliardi di euro (+108%) gli acquisti di Bot e Btp nell’ambito del piano promosso dalla Banca centrale europea. Infatti, nel 2015, la Banca d’Italia deteneva 169,4 miliardi di titoli pubblici del nostro Paese, cifra corrispondente al 7,8% del totale del debito; la quota di debito sottoscritta dall’Istituto di Via Nazionale, nell’ambito del piano di acquisti avviato dalla Banca Centrale Europea, è salita a 353,7 miliardi a fine 2017 e il suo peso sul totale è raddoppiato passando al 15,45%; l’incremento è stato pari a 184,3 miliardi (+108,81%).

Nello stesso periodo è sceso da 149 miliardi a 120 miliardi (-20%), grazie anche all’importante calo dei rendimenti, lo stock di obbligazioni pubbliche emesse dal Tesoro detenuto da famiglie e imprese. Al contrario si è ridotto di quasi 32 miliardi, invece, il portafoglio di bond dello Stato italiano posseduto dalle banche.

Lo stock di debito sottoscritto dalle banche (categoria nella quale viene conteggiato pure il portafoglio dei fondi monetari) è sceso di 31,9 miliardi (-4,87%) da 655,9 miliardi a 624,04 miliardi e la quota è passata dal 30,18% al 27,25% del totale. Per quanto riguarda i fondi d’investimento e le assicurazioni, l’ammontare di Bot e Btp è leggermente diminuito di 2,6 miliardi (-0,58%) da 457,7 miliardi a 455,1 miliardi, con la percentuale complessiva calata lievemente dal 21,06% al 19,88%. Sensibile calo, invece, delle obbligazioni statali acquistate da famiglie e imprese: la diminuzione registrata nel biennio 2015-2017 è pari a 28,8 miliardi (-19,34%) da 149,04 miliardi a 120,2 miliardi di euro. Sostanzialmente stabile e rilevante nella mappa dei sottoscrittori di debito, il peso degli investitori stranieri: il totale di Bot e Btp in mano alle grandi banche mondiali e alle istituzioni finanziarie internazionali è passato da 741,08 miliardi a 736,5 miliardi con una regressione di 4,5 miliardi (-0,62%) che porta dal 34,10% al 32,17% la quota complessiva.

In questo contesto, la proposta fa riferimento alla necessità di prevedere una azione che congiuntamente favorisca un aumento della quota in possesso di famiglie e imprese italiane (5,2% nel 2017 in riduzione negli anni), della Banca d’Italia (15,4% nel 2017 già in aumento) e del sistema bancario e finanziario nazionale (27,2% nel 2017 in riduzione negli anni), attraverso iniziative di comunicazione e di moral suasion ovvero con possibili interventi sulla leva fiscale. L’obiettivo è ridurre la quota di debito pubblico in mano a prestatori stranieri (32% nel 2017 già in leggera diminuzione).

Il principale impatto di tale politica sarebbe quello di ridurre il rischio speculativo e mettere al riparo il nostro Paese da possibili “azioni ostili” o comunque renderle meno invasive, ad opera dei mercati finanziari internazionali. In questo modo si allevierebbero anche le pressioni sui tassi di interesse con un effetto benefico anche sui conti pubblici riducendo il costo del servizio sul debito (attualmente pari 60-65 miliardi di euro all’anno) e si aumenterebbe il grado di sostenibilità del debito pubblico nazionale.

In pratica si dovrebbe favorire una “nipponizzazione” del nostro debito.

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