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Alternanza Scuola-lavoro

La “fine del lavoro” (copyright Beppe Grillo). Storia, cronaca e interrogativi

Il Bloc Notes di Michele Magno Tra i punti scomparsi misteriosamente nel programma del M5s, ce n’è uno, prima votato a furor di popolo sulla piattaforma Rousseau e poi al centro di un martellante battage propagandistico, rilanciato a sorpresa da Beppe Grillo. “Le nostre città – ha scritto sul suo blog – sono costruite per…

Tra i punti scomparsi misteriosamente nel programma del M5s, ce n’è uno, prima votato a furor di popolo sulla piattaforma Rousseau e poi al centro di un martellante battage propagandistico, rilanciato a sorpresa da Beppe Grillo. “Le nostre città – ha scritto sul suo blog – sono costruite per ospitare un popolo di formiche operaie, ma la metà (se non tutti) dei cosiddetti lavori manuali ripetitivi e quelli da scrivania, o comunque a bassa creatività, possono essere sostituiti già oggi con la tecnologia”. Conclusione: una settimana lavorativa di 25 ore basta e avanza per fronteggiare la disoccupazione tecnologica.

Niente di nuovo sotto il sole. La “fine del lavoro” indotta dell’automazione integrale dei processi produttivi è un vecchio refrain, tornato in auge nel passaggio di secolo. Di fronte alla disoccupazione di massa, sociologi ed economisti si sono ingegnati a descrivere la terra promessa del non-lavoro gratificante (finanziato dai contribuenti). Il lavoro non c’è più, sventura. Il lavoro non c’è più, evviva. La verità, pervicacemente contestata da tutti i neoluddisti del terzo millennio, è che ogni rivoluzione industriale comporta la nascita di lavori nuovi e, parallelamente, la sostituzione di vecchi mestieri.

Nel romanzo I due poeti (celebrato da Marx), con cui apre il ciclo delle Illusioni perdute (1837-1843), Balzac scrive: “All’epoca in cui comincia questa storia la macchina di Stanhope e i rulli inchiostratori non erano ancora entrati nelle piccole stamperie di provincia”. Nella tipografia descritta nelle prime pagine del romanzo sopravvivono perciò “Orsi” e “Scimmie”, cioè i torcolieri che si muovono tra le tavolette su cui è disteso l’inchiostro e il torchio, e i compositori, che fanno una “ininterrotta ginnastica […] per prendere i caratteri nei centocinquantadue cassettini in cui sono contenuti”. Tutte figure professionali e mansioni destinate a scomparire, poiché le loro funzioni sarebbero state svolte da macchine: il torchio a vapore, la rotativa, la linotype.

Lo stesso vale per la rivoluzione informatica in corso. Basti citare un esempio emblematico: il Mechanical Turk di Amazon, che prende il nome dal celebre fantoccio meccanico creato da Wolfgang von Kempelen per Maria Teresa d’Austria (1769); un finto automa in grado di giocare a scacchi, all’interno del quale si celava un campione dal fisico minuscolo che ne manovrava le mosse. Si tratta di una piattaforma di “crowdworking” (da crowd, folla, e working, lavoro), in grado di connettere chi offre lavoro con un esercito di consulenti, disponibile giorno e notte, sette giorni su sette. Non è difficile cogliere in questo portale un taylorismo sui generis: ogni ordine inviato on-line mobilita i dipendenti impiegati nei magazzini in percorsi lunghi chilometri, con assegnazione di compiti parcellizzati, gestiti e monitorati grazie alla Rete e a modelli di business che poggiano su una ferrea divisione del lavoro.

Ma torniamo alla questione da cui siamo partiti. Con lo storico motto “otto ore di lavoro, otto ore di istruzione, otto ore di riposo”, coniato dalle Trade Unions nel 1869, inizia la lunga marcia delle associazioni del proletariato verso la regolamentazione dell’orario di lavoro. Una marcia irrisa da Ferdinand Lassalle, il più popolare dei socialisti tedeschi dell’epoca, il quale predicava l’inutilità delle lotte sindacali per il miglioramento della condizione operaia senza la conquista del potere statale. Più tardi, György Lukács sosterrà perfino che meno orario e più salario servivano solo a rendere lo “sfruttato” un consumatore più affidabile per i capitalisti.

Dopo i traguardi delle 48 ore settimanali negli anni Venti, delle 40 negli anni Sessanta e delle 36 (o 35) negli anni Novanta del Novecento, quello che sembrava un cammino inarrestabile (Keynes aveva preconizzato addirittura una giornata lavorativa di tre ore), si interrompe bruscamente. Si è assai dibattuto sulle ragioni di questo stop. Ha sicuramente pesato l’allungamento della speranza di vita, che si è venuto incrociando con il calo del tempo di lavoro. Non è facile, anche per le economie più sviluppate, reggere le opposte dinamiche di una durata del lavoro che diminuisce e di una durata della vita che aumenta. I venti ostili alla riduzione degli orari provengono però anche da altri lidi, anzitutto dalla comparazione tra i tassi di crescita statunitensi e quelli europei.

Come dimostrano i dati dell’Ocse, gli americani sono più produttivi e insieme più sgobboni. Producono cioè di più anche perché lavorano di più. In altri termini, non è soltanto una questione di produttività, ma di orari. Se poi guardiamo all’Italia, il fallimento del disegno di legge sulle 35 ore (1998) dovrebbe suggerire qualche riflessione. Infatti, come Fausto Bertinotti ieri, Grillo oggi sembra cadere nello stesso errore: quello di una visione ottocentesca del mercato del lavoro, come se fosse spaccato a metà tra occupati e disoccupati. Mentre da noi resta forte il dualismo tra lavoro regolare e lavoro nero. Ben nota, inoltre, è l’ampiezza del lavoro precario e del fenomeno dei working poors, ossia di chi, pur avendo un impiego, è vicino alla soglia della povertà.

Questa realtà, fatta di molto lavoro mal compensato e tutelato, non può essere esorcizzata con la bacchetta magica del “lavorare meno, lavorare tutti”. Nonostante nessuno neghi che la disoccupazione si combatte anzitutto creando nuovo lavoro, l’idea che la redistribuzione di quello che c’è possa almeno alleviarla conferisce attrattiva alle suggestioni di chi propone di accorciarne la durata. Due sono le soluzioni, semplici e intuitive. La prima, facilona, è del tipo: un’ora in meno la settimana uguale un milione di posti in più. La seconda, spaccona, è del tipo: ridurre le ore al minimo per liberare il lavoro e riprendersi la vita. Alla base di entrambe c’è una evidente forzatura, che vuole le sfere del lavoro e della vita fungibili e interscambiabili: era un obiettivo dell’umanesismo industrialista, e paradossalmente fu il comunismo sovietico ad imporlo. Per fortuna è solo una chimera, perché lavoro e vita hanno logiche e culture diverse: le donne soffrono la loro sovrapposizione, non la loro separatezza. L’esistenza ricca è quella che combina i loro tempi e i loro ambiti, mentre la giustapposizione è un mito: un mito da scongiurare.

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