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Come e perché Jp Morgan di Dimon festeggia per la riforma fiscale di Trump

L’articolo di Francesco Bertolino Un buffetto e molte carezze. Nell’annuale lettera agli azionisti di JpMorgan Jamie Dimon approva le riforme di Donald Trump e riserva qualche critica, a dire il vero poco incisiva, alla politica estera dell’America First. Nel complesso, il ceo della prima banca d’investimento americana, fresco di rinnovo per altri cinque anni, promuove…

Un buffetto e molte carezze. Nell’annuale lettera agli azionisti di JpMorgan Jamie Dimon approva le riforme di Donald Trump e riserva qualche critica, a dire il vero poco incisiva, alla politica estera dell’America First. Nel complesso, il ceo della prima banca d’investimento americana, fresco di rinnovo per altri cinque anni, promuove gli interventi dell’amministrazione repubblicana.

ùA partire dal taglio delle tasse, che, assieme a «condizioni normative più costruttive», permetterà alla società di impiegare il capitale in eccesso «per far crescere i nostri affari, espanderci in nuovi mercati e sostenere i nostri lavoratori». Il rimprovero, implicito, va ai precedenti inquilini della Casa Bianca, incapaci di metter mano a «un sistema fiscale non competitivo, responsabile della fuga oltremare di capitali e cervelli» e di ridurre la burocrazia, «un morbo che rallenta le decisioni e uccide l’innovazione».

Secondo Dimon, per completare la ripresa dell’economia americana dalla crisi del 2009 mancano ancora quegli investimenti nelle infrastrutture promessi da Trump durante la campagna elettorale. A febbraio il presidente ha sì presentato il suo piano da 1,5 miliardi di dollari, ma si è affrettato a rimandarne l’attuazione a novembre, dopo le elezioni di mid-term. Se gli Usa non sono neanche fra i primi 20 Paesi al mondo per qualità delle infrastrutture, però, sarebbe colpa non solo della mancanza di fondi ma anche della presenza di regole troppo restrittive: «Sono bastati otto anni a portare l’uomo sulla luna», scrive il ceo di JpMorgan, mentre «oggi capita di doverne aspettare dieci per ottenere il permesso di costruire un ponte o una centrale fotovoltaica». Insomma, Dimon sembra spingere per una deregulation (nelle sue parole una «smart regulation») e saluta con favore l’impegno della Casa Bianca «a diminuire la produzione legislativa insistendo su un’appropriata analisi costi-benefici delle norme all’esame del Congresso».

Nelle 46 pagine della lettera c’è spazio anche per la politica estera e l’opinione sul protezionismo di Trump appare meno favorevole. Appare; in realtà Dimon, pur definendo la globalizzazione un processo irreversibile e vantaggioso per tutti, giudica «legittime» le recriminazioni presidenziali riguardo alla concorrenza sleale subita dagli Stati Uniti: «I dazi e le barriere commerciali sono spesso inique, il furto di proprietà intellettuale è un problema serio, in molti Paesi non è garantito il diritto di investire in o acquisire società e il sussidio statale a compagnie private è una prassi comune».

Esattamente quanto Trump rimprovera alla Cina. La coincidenza non è casuale: secondo il banchiere, il Dragone, la seconda economia mondiale, continua a «considerarsi una nazione in via di sviluppo non obbligata a rispettare gli standard Wto applicati agli altri Paesi sviluppati». Dunque «non sono irragionevoli le pressioni degli Stati Uniti per ottenere un trattamento equo».
Una guerra commerciale, comunque, viene giudicata al momento poco probabile.

Più incerte le eventuali conseguenze di un repentino cambiamento della politica monetaria da parte di Fed e Bce. Un’ipotesi che, secondo Dimon, «molti sottostimano», ma che potrebbe diventare realtà nel caso di un’improvvisa impennata di inflazione e salari. «Finché l’aumento dei tassi d’interesse segue la crescita economica e i prezzi restano sotto controllo», spiega, «è ragionevole aspettarsi che un’inversione del Quantative easing non sarà traumatica». Ma, avverte Dimon, «poiché il Qe non è mai stato applicato su questa scala, gli effetti di un suo ritiro non sono del tutto prevedibili».

Il ceo di JpMorgan infine liquida la questione Brexit in poche battute: «È difficile immaginare il suo impatto a lungo termine sul Regno Unito. Per quanto ci riguarda, siamo pronti a una hard Brexit: si tratta essenzialmente di spostare 300-400 lavoratori e apportare alcune modifiche legali per proseguire i nostri affari già dal giorno successivo». Insomma, business as usual.

(Articolo pubblicato su Mf/Milano finanza)

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