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Il vicolo stretto della finanza pubblica italiana. L’analisi di Polillo

L'analisi di Gianfranco Polillo

 

L’ottimismo della volontà può essere una grande risorsa. Spinge ad agire. A trovare strade più aderenti per gestire una realtà complessa e contraddittoria. E navigare in quelle “acque incognite“ che un grande timoniere, come Mario Draghi, ha saputo affrontare. Ma se questo contesto viene meno, si trasforma in una banale foglia di fico, che maschera il solo tirare a campare. Nella vana speranza che, alla fine, nessuno chieda il conto finale.

Nel giorno in cui il Governo italiano rispondeva alla missiva di Bruxelles su debito e deficit, gli spread raggiungevano la loro punta massima degli ultimi 5 mesi: 294,5 punti base. Una fiammata a metà mattinata, per poi ripiegare a fine seduta. Seppure leggermente. E lunedì prossimo tutti gli occhi saranno puntati sui mercati, nella speranza di capire quale sarà la direzione di marcia: se quella di mezzogiorno o di fine giornata.

Intanto l’Istat rettificava quel cauto ottimismo che aveva manifestato solo qualche giorno fa, nell’ipotizzare un tasso di crescita del Pil, per l’anno in corso, pari allo 0,3 per cento. Nel primo trimestre dell’anno il Pil, in termini congiunturali, è cresciuto solo dello 0,1, contro le previsioni dello scorso mese, che lo quotavano – comunque poca cosa – allo 0,2. Ancora una volta l’estero l’ha fatta da padrone, a causa della persistente debolezza della domanda interna. Il suo contributo è stato pari allo 0,5 per cento. Più che compensato dal crollo delle scorte, pari allo 0,6 per cento. Drammatico indicatore del comportamento degli operatori, che non credono ad un miglioramento prossimo venturo e quindi svuotano i magazzini. Ultimo dato sconfortante: l’acquisito per l’anno in corso. Pari a zero. In controluce un barlume di deflazione: con la produzione che ristagna ed i prezzi che decelerano. Mentre l’Eurozona cresce, in media, quattro volte tanto.

A pochi passi da Via Cesare Balbo, l’austero palazzo dei conti nazionali, Ignazio Visco leggeva le sue “Considerazioni finali”. Un tempo guida e bussola della politica economica italiana, mai apertamente contestata, seppur più osannata che effettivamente perseguita. Come al solito letture differenti. Viste con gli occhiali dei reciproci pregiudizi. Ed ecco allora chi esalta l’invito a rispettare le prescrizioni del rigore. Ed altri, come i 5 stelle, che rimestano le solite accuse. Banca d’Italia e la stessa BCE di Mario Draghi considerate la testa del serpente: quel sistema bancario visto come un covo di vipere da calpestare.

Semplificazioni non solo inaccettabili, ma basate su grumi di analisi collocate fuori del contesto. Se, quest’anno, le “Considerazioni” hanno un merito, esso si sostanzia nel tentativo di individuare quel sentiero, indubbiamente stretto, che lega l’esigenza di preservare il necessario equilibrio finanziario ai temi dello sviluppo. Il rapporto debito pubblico-Pil può calare – dice Visco – se il tasso di crescita dell’economia, in termini nominali, è maggiore del tasso d’interesse. Se questo non si verifica, allora, tutto è inevitabilmente condizionato dalla dimensione dell’avanzo primario. Vale a dire dalla differenza tra entrate e spese, al netto di quelle per gli interessi.

Ne deriva un facile corollario. Se cresce il tasso di sviluppo complessivo, i problemi si risolvono quasi in modo automatico. Se invece l’encefalogramma tende verso il basso, la stretta non solo è necessaria. Ma destinata ad alimentare una progressiva spirale. È, infatti, evidente che stringere la cinta non solo accentua il malessere sociale, ma determina l’ulteriore crollo della domanda interna, accentuando quei persistenti squilibri macroeconomici che l’Istat ha ancora una volta certificato. Tutto così meccanico? Tutt’altro. Ma qui ritorna il discorso sull’ottimismo della volontà. Deve produrre scelte coraggiose, seppur evitando fughe in avanti. Il dormire, immaginando scenari immaginifici, serve a poco.

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