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Il Fmi, l’Italia e il silenzio delle élite. Il commento di Polillo

Che cosa dice (di vero ma anche di discutibile) il rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi) sull'Italia e che cosa biascicano le élite italiane. Il commento di Gianfranco Polillo

Ma l’Italia, nel comune sentire delle élite internazionali, è ancora una Nazione o un semplice Protettorato, come lo fu la Tunisia o il Marocco, rispetto alla Francia, nell’800?

L’interrogativo sorge spontaneo, leggendo l’ultimo report del Fmi sulla situazione del Bel Paese, al termine della tradizionale missione degli esperti sul suolo nazionale, secondo le procedure previste dall’Article IV. Sorprendente l’incipit, al primo punto del documento: “L’attuazione della politica fiscale nel 2019 è stata migliore del previsto e ha contribuito a migliorare la fiducia del mercato. L’impegno costruttivo con la Commissione europea ha consentito di evitare l’avvio della procedura per i disavanzi eccessivi dell’Ue”. Fin qui nulla di grave, semplice constatazione. Il peggio viene dopo, quando si dice, al punto due: “Tuttavia, l’indebolimento del quadro esterno e l’incertezza della politica interna hanno complicato una situazione economica e sociale già difficile”. Nessun sospetto, quindi, che tra le due enunciazioni vi potesse essere una qualche relazione.

Che, appunto, le drammatiche condizioni italiane fossero, anche, conseguenza di politiche sbagliate, imposte dall’operare di quel “Protettorato”, che ha impedito ogni possibile alternativa. La loro descrizione è, forse la parte migliore del documento del Fmi. “La crescita del Pil reale nel 2019 è stimata allo 0,2 per cento, in calo rispetto a un massimo degli ultimi 10 anni, pari all’1,7 per cento toccato nel 2017. I redditi personali reali rimangono per circa il 7 per cento al di sotto del picco pre-crisi (2007) e continuano a rimanere indietro rispetto ai quelli dell’area dell’euro. Nonostante i tassi di occupazione record, la disoccupazione è alta quasi al 10 percento, con tassi molto più alti nel Sud e tra i giovani. La partecipazione della forza lavoro femminile è la più bassa dell’Ue”. Dati che dimostrano la necessità di un cambiamento profondo, rispetto a quello status quo, la cui difesa è diventato il perno delle politiche governative: soprattutto da parte del Pd.

Il Fondo ne è consapevole. Suggerisce quindi una serie di interventi, che non rappresentano, per la verità, grandi novità. Un “pacchetto ampio di riforme” per “liberalizzare i mercati”. Occorre, poi, rilanciare la concorrenza nei servizi, nel commercio nell’energia, e dare priorità a una negoziazione dei salari aziendali. “In questo contesto si può pensare a un salario minimo”, limitato, tuttavia, alla sola mano d’opera femminile. Restano poi quelle che il Fmi considera “riforme complementari”, che riguardano il codice degli appalti, le inefficienze delle municipalizzate, la giustizia civile e la scuola. Tutte cose buone e giuste, sulle quali è difficile non essere d’accordo.

Il problema di fondo resta tuttavia quello delle risorse. Anche a prescindere dal tema di una volontà politica che, almeno, al momento sembra latitare, tutti questi interventi hanno un costo. Dove prendere i soldi necessari? Giustamente il Fondo se la prende con “quota 100” ed il “salario di cittadinanza”. Questi due istituti possono pure avere diritto di cittadinanza, ma a determinate condizioni. Occorre, nel primo caso, non recidere la relazione che intercorre tra l’entità dei contributi versati e la successiva rendita pensionistica. Nel secondo caso le misure adottate sono fin troppo domestiche e disallineate rispetto agli standard internazionali. Il sussidio è troppo alto e non tiene nel debito conto le condizioni familiari. Rischia, tra l’altro, di disincentivare la possibile ricerca di un inserimento nel mercato del lavoro.

C’è poi il tema del cuneo fiscale che, in Italia, rimane troppo penalizzante. Pari al 48 per cento, contro una media europea del 42 per cento. Finora i tentativi di ridurne il peso sono stati troppo modesti: uno 0,2/0,3 per cento per gli anni 2020/2021. Bisogna fare molto di più. Puntare ad una riduzione di almeno 2 punti percentuali, allargando tuttavia la base di coloro che dovranno beneficiare della misura. Essendo quella prevista dalla legislazione in vigore fin troppo ristretta. Le maggiori risorse possono derivare da una razionalizzazione delle tax expenditures, i vantaggi fiscali finora accordati che dovrebbero cessare specie per i redditi più alti. Da una revisione delle aliquote ridotte dell’Iva, stando, tuttavia, bene attenti alle conseguenze di carattere sociale. Da una maggiore tassazione degli immobili e dalla carbon tax, per ridurre i pericoli dell’inquinamento. Ed, inevitabilmente, da una maggiore lotta contro l’evasione.

Basteranno queste misure, tenendo anche conto della necessità di rilanciare gli investimenti? Che, a loro volta, non nascono, come Venere dalla spuma del mare, ma richiedono un forte preventivo rilancio della domanda interna. Ne dubitiamo fortemente. A queste preoccupazioni il Fmi risponde chiedendo un’accentuazione della politica di stabilizzazione finanziaria. Il massimo dell’immaginazione è rappresentato dall’ipotesi di una “posizione di bilancio neutrale per quest’anno, se fosse in atto un consolidamento credibile a medio termine”, Grazie ad “un aggiustamento graduale ed equilibrato” che “dovrebbe mirare a fornire un avanzo complessivo di ½ percento del PIL intorno al 2025”. Il debito pubblico rimane, infatti, troppo alto: pari al 135 per cento del Pil, e con un tasso di crescita che viene confermato nello zero virgola non si va da nessuna parte.

Come hanno risposto le élite italiane? Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si è limitato a dire che le stime italiane, che si distaccano solo in minima parte dalle ipotesi del Fondo, sono migliori da un punto di vista previsionale. Per il resto, un assordante silenzio. In piena sintonia con quella “tirannia dello status quo” (un vecchio libro di Milton Friedman) di cui si diceva in precedenza.

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