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Conte

Tutte le colpe del premier Conte sul caso Ilva-Arcelor Mittal. Il commento di Polillo

Le responsabilità maggiori ora sul caso Ilva-Arcelor Mittal sono di Giuseppe Conte, allora come ora presidente del Consiglio. Ecco perché. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Le regole istituzionali sono una cosa seria. Quando si violano, per rispondere a fenomeni contingenti, può dir bene. Ma possono anche produrre piccoli o grandi disastri. Il caso dell’Ilva lo dimostra. Di chi sarà la responsabilità nel caso in cui non si addivenga a una soluzione che salvi il principale centro siderurgico nazionale? Che dia una speranza lavorativa a quegli oltre 10 mila addetti, in una realtà, come quella del Mezzogiorno, da tempo avviata lungo la strada della desertificazione economica e sociale? Con riflessi immediati sulla situazione produttiva dell’intero Paese.

Il Pd ha facile gioco nello scaricare la palla della responsabilità sul precedente governo. Ma questo non basta. Quell’esperienza, come più volte affermato da uno dei suoi azionisti, prima di minoranza poi di maggioranza, fallì per la sequela dei “No” più volte pronunciati. Tra i quali c’era anche quello di eliminare lo scudo penale a favore dei dirigenti della ArcelorMittal. Naturalmente la stessa Lega non è esente da colpa, avendo ceduto alle suggestioni “grilline”. Ma si è trattato di un peccato veniale, che, nel tempo, vista la reiterazione, è divenuto mortale. Fino a determinare la crisi. Non era stato “l’elevato”, al secolo Beppe Grillo, a proporre di destinare l’area, in cui sorge l’impianto, ad un grandioso parco giochi?

Ma le responsabilità maggiori sono di Giuseppe Conte, allora come ora presidente del Consiglio. E al quale spetta, secondo l’articolo 95 della Costituzione, la direzione della politica del governo e sul quale ne ricade l’intera responsabilità. Che poi il presidente non abbia potuto o voluto esercitare le proprie prerogative è solo un caso minore di quel “gran rifiuto” di cui parla Dante Alighieri nel III canto dell’Inferno. Il gioco perverso della continuità-discontinuità istituzionale ha quindi prodotto un mostro che, ormai, è difficile da gestire. Si cercherà di limitare il danno, sempre che sia possibile. Ma il governo parte, nell’eventuale trattativa, da una posizione di debolezza.

Tanto più che, in questa complicata vicenda, ci ha messo lo zampino il Tribunale penale di Taranto che ha obbligato i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019. Missione impossibile. Ordinanza che avrebbe comportato lo spegnimento di un altoforno e la chiusura precauzionale di altri due. In poche parole, la morte di ogni piano industriale, nel momento in cui i prezzi dell’acciaio, a causa del rallentamento della congiuntura internazionale, flettono verso il basso. Per cui rimanere sul mercato diventa vagamente possibile, solo potendo utilizzare la potenza di fuoco della produzione di scala.

Questo quindi il quadro disarmante. Figlio di quel sassolino, lasciato cadere dalla montagna, che è stata la gestione della crisi politica precedente. Un governo, guidato da un altro presidente del consiglio, avrebbe potuto fare molto di più. Ritornare, ad esempio, sulla precedente decisione relativa allo “scudo penale”, per consentire all’azienda di completare il piano di risanamento ambientale. Nessuno sconto, per carità, se accompagnato da un monitoraggio costante delle opere intraprese. Opzione oggi più difficile da perseguire, perché qualcuno potrebbe perdere la faccia ed ammettere di aver sbagliato nella sua vita precedente.

Ne usciremo? Difficile fare previsioni. Ma che la vicenda passata serva almeno da monito. Le regole costituzionali non sono una gentile concessione del Principe. Nè, tanto meno, un astratto dover essere. Sono i vasi comunicanti della democrazia. Se si occludono, con piccole o grandi furbizie, il rischio di un infarto diventa incombente.

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