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Ecco come è cambiata davvero a Bruxelles la manovra del governo. Il commento di Polillo

Il ruolo di Bruxelles. I numeri numeri. E le prospettive (non esaltanti). La manovra del governo analizzata da Gianfranco Polillo, già sottosegretario all'Economia

 

Chi ha deciso la manovra di finanza pubblica, esposta nella legge di bilancio, dopo il maxiemendamento? Dibattito un po’ lunare, echeggiato nelle aule parlamentari e non solo. Eppure è sufficiente leggere la corrispondenza intercorsa tra Roma e Bruxelles per avere la necessaria risposta. E’ stata scritta a quattro mani tra la Commissione e Palazzo Chigi, con l’assistenza di Via XX Settembre. Alla prima è stata riservata la cornice – ma meglio sarebbe dire il letto di contrizione – con la scelta dei punti più qualificanti: tasso di crescita dell’economia e deficit, nelle varie versioni. Ai secondi, com’è giusto che sia nel rispetto del principio della sovranità nazionale, come giungere a traguardi, in precedenza definiti.

La previsione del probabile tasso di crescita dell’economia è stato il principale chiavistello. Secondo la Commissione, ma soprattutto il buon senso, si possono distribuire solo le risorse che si hanno a disposizione. Ipotesi immaginifiche, come quell’1,5 per cento appostato nel progetto originario del governo, non fanno altro che mettere a carico delle generazioni future il costo delle elargizioni del principe. Ma quando il debito ha la dimensione di quello italiano (il 131 per cento del Pil) non c’è nessuno pronto a credere in quella scommessa. Ma soprattutto a finanziare l’opera azzardosa. Salvo pretendere il giusto prezzo per il maggior rischio, che si misura in termini di spread sui titoli emessi. Sempre che le relative aste non vadano quasi – com’è avvenuto – deserte.

Quindi il primo disperato tentativo del governo è andato a vuoto. Alla fine la realtà ha determinato il necessario risveglio. Le nuove previsioni riflettono le più recenti valutazioni di Banca d’Italia: quel modesto 1 per cento che si trascinerà, Dio volendo, per tutto il triennio. Ma non è detto. I calcoli della Banca d’Italia scontavano un deficit del 2,4 per cento. Con un taglio dello 0,4 per cento, quel traguardo appare più lontano. Il governo, in un disperato tentativo di salvare la faccia, ipotizza che buona parte di quel modesto incremento (0,4 per cento) sarà, comunque, il frutto della “manovra del popolo”. Ma questo significa che l’apporto dell’estero sarà pari solo allo 0,6 per cento. Con una caduta di circa il 50 per cento rispetto agli andamenti prevedibili. Il che, francamente, lascia più che perplessi.

Secondo paletto, il deficit: dovrà essere, com’è noto, del 2,04 per cento. Eventuali scostamenti saranno monitorati dal ministro dell’Economia, che ha già provveduto a congelare la spesa per 2 miliardi. Se il tiraggio dovesse andare oltre le previsioni scatterà la tagliola, sotto il controllo della stessa Commissione europea, che, non fidandosi, si è riservata il diritto di intervenire. Altrimenti sarà comunque “procedura d’infrazione”: sospesa, ma non definitivamente accantonata.

Interessante è vedere, peraltro, come si è arrivati a quella cifra. Il dato effettivo di partenza è stato l’1,8 per cento. Il compromesso realizzato all’inizio di questa lunga traversata nel deserto e poi buttato alle ortiche dall’alto del balcone di Palazzo Chigi nel tripudio a festa di Luigi Di Maio, che inneggiava alla definitiva “sconfitta della povertà” in Italia. Nel frattempo spread alle stelle, borse in picchiata e aumento (1,5 miliardi) della spesa per interessi. Una spada di Damocle che pesa, ancora oggi, sui conti pubblici italiani e non solo. Basti vedere le sofferenze del sistema bancario italiano: solo in questi ultimi giorni i titoli finanziari, in Borsa, perdono fino al 10 per cento.

Al 2,04 per cento si arriva solo perché l’Europa riconosce all’Italia una maggiore flessibilità per 3.644 miliardi (0,2 per cento del Pil). Un dettagliato elenco di opere che riguardano il dissesto idrogeologico, la messa in sicurezza degli edifici, gli eventi calamitosi, la ricostruzione del ponte di Genova e la manutenzione stradale. Spese che dovranno essere sostenute sia dallo Stato centrale che dagli Enti locali. Le risorse sono stanziate, si tratterà di vedere se esistono anche procedure rapide che consentiranno – cosa più difficile – l’apertura dei cantieri. Se questo non dovesse avvenire, anche questo contributo alla crescita del Pil andrà in cavalleria. Si aspetta con trepidazione la riforma del “codice degli appalti”, la cui complessità burocratica blocca da tempo ogni voglia del fare.

La contropartita italiana è stato il reperimento di maggior risorse per un valore pari a 10.254 milioni nel 2019 e ben 38.493 nel triennio. Grazie a questa stretta, l’indebitamento dovrebbe scendere dal 2 per cento del 2019 all’1,8 per cento l’anno successivo, per terminare all’1,5 per cento nel 2021. Rispetto alle previsioni per il 2020 della Commissione europea rimangono, tuttavia, notevoli divergenze. Pur considerando i tagli, il deficit dovrebbe attestarsi, in questo secondo caso, sul 2,2 (0,4 in più) per cento nonostante le previsioni leggermente più ottimistiche sul tasso di crescita del Pil (1,2 contro 1,1 per cento italiano). Si preannunciano nuove piccole, grandi baruffe.

Interessante è vedere come si sia arrivati a quella cifra. La parte del leone spetta all’Iva, il cui aumento per il 2020 ed il 2021 pesa per il 59 per cento: 9,4 miliardi il primo anno e più di 13 nel secondo. Luigi Di Maio giura che l’aumento sarà scongiurato. Non se ne può che prenderne atto. Con l’avvertenza, tuttavia, che quelle minori entrate andranno, comunque, compensate: con tagli di spesa o maggiori imposte. Una zavorra che, fin da ora, è destinata a trascinarsi nei prossimi esercizi. Nel triennio le maggiori entrate, derivanti da imposte o riduzione degli sgravi previsti dalla legislazione vigente, ammontano al 70 per cento dell’intera manovra (26,8 miliardi). Il 16 per cento da riduzioni della spesa corrente originariamente prevista (6,3 miliardi) di cui la parte prevalente è data dal taglio delle indicizzazioni sulle pensioni (2,2 miliardi) e dalla minore spesa per il reddito di cittadinanza (3,5 miliardi).

La rimanente parte, per il 14 per cento, dal contenimento della spesa per investimenti. Seppure in forme diverse. Questi ultimi sono stati ridotti per un importo pari a 5,4 miliardi. Che coprono abbondantemente le concessioni ottenute in omaggio alle clausole di flessibilità. Con un saldo negativo pari a 1,8 miliardi. Che la dice lunga circa la spinta propulsiva dell’intera manovra. Del resto di fronte all’Europa, il governo non ha potuto che certificare, in anticipo, la sua ritirata. Nel nuovo quadro macroeconomico programmatico gli investimenti fissi lordi scenderanno da un tasso di crescita del 4,1 per cento, previsto per quest’anno, al 2,3 per cento del 2019 per poi declinare ancora: fino a raggiungere il 2 per cento nel 2021.

Se questo è il quadro, fornito dallo stesso governo, al quale non abbiamo avuto bisogno di aggiungere o togliere alcunché, è difficile essere ottimisti. Spiega, tra l’altro, il consistente aumento dei livelli di disoccupazione che si è già registrato in questi ultimi mesi: nuovo sogno infranto dei grillini con il loro decreto “dignità”. Resta solo da capire la ragione profonda di un Paese che continua ad avere un eccesso di risparmio, mentre sprofonda continuamente nell’indigenza. Il paradosso della scarsità nell’abbondanza: individuata da Keynes nella sua Teoria generale. Una malattia che ci trasciniamo dal 2012, che ha favorito la “resistibile ascesa”, per dirla con Brecht, dei movimenti populisti. Ma che può spianare la strada ad un loro altrettanto repentino declino.

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