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Debito e Mes. Consigli utili a Italia e Bruxelles per evitare che l’Europa si frantumi

L’Ue può contribuire a una positiva evoluzione sul fronte del debito italiano. Ma senza insistere su nefaste rigidità dagli esiti finali imprevedibili dato il peso oggettivo che l’Italia ha negli equilibri complessivi del Continente. Le proposte di Gianfranco Polillo

 

Dopo la fumata nera dell’Eurogruppo, cosa dovrebbe fare un condottiero avveduto, in un momento di oggettiva difficoltà, per salvare le proprie truppe? Innanzitutto evitare assalti frontali, che porterebbero all’inevitabile distruzione del suo esercito. Quindi nessun voto contrario, da parte del Parlamento italiano, alla futura ratifica del Mes. Insistere su questa posizione, accelererebbe il momento di crisi. Darebbe ai mercati il segnale che forse aspettano da tempo. La dimostrazione, con largo anticipo, che il debito pubblico italiano non è sostenibile. E quindi possibile preda delle peggiori e più spericolate operazioni di carattere speculativo.

Il nostro “principe” dovrebbe essere “golpe e lione”, come insegnava il Machiavelli. Utilizzare l’intervallo che ancora resta, prima di giungere alla definitiva votazione del Parlamento italiano, per negoziare in Europa una diversa posizione. Che non riguardi, tuttavia, la struttura del Mes, ormai definita. Nè tanto meno gli altri dossier (Unione bancaria e budget europeo) che, in qualche modo, hanno una loro vita autonoma. E che offrono pochi appigli per poter supportare quella “logica di pacchetto” più volte evocata. Semplice foglia di fico, a copertura della propria impotenza. Dovrebbe, invece, puntare su una deroga, in un campo diverso da quello di Agramante.

La logica della deroga non è estranea alla tradizione europea. Quando fu costruito il Sistema monetario europeo, prima che la riunificazione tedesca lo mandasse in pezzi, all’Italia, alla Spagna ed al Portogallo fu garantita una posizione di favore. Poi estesa anche all’Inghilterra, quando decise, successivamente, di entrare a farvi parte. Mentre alle altre monete, rispetto all’ECU, veniva riconosciuto un margine di oscillazione compreso tra il più ed il meno 2,25 per cento, alla lira, alla peseta, allo scudo e alla sterlina il margine fu esteso al 6 per cento.

Si trattò di una concessione indispensabile, per consentire ai Paesi più deboli, dal punto di vista economico e finanziario, di reggere all’avversa congiuntura e far fronte ai loro problemi politici interni. Tutt’altro che semplici da dipanare. Avere a disposizione un margine maggiore, poteva consentire ai singoli Paesi una svalutazione più ampia della propria moneta. E quindi non perdere le posizioni acquisite sui mercati internazionale. Indispensabili per non deprimere crescita economica ed occupazione. L’Europa di allora, guidata da Giscard d’Estaing e da Helmut Schmidt, si dimostrò lungimirante. Il sistema, benché claudicante, resse dal 1979 al 1998. Un intervallo, pari agli anni che ci separano dal fallimento della Lehman Brothers.

Ed ecco allora l’importanza di un precedente. Quindi, per tornare a noi, il nostro “principe”, nel ricordare quei lontani avvenimenti, dovrebbe invocare un’operazione di verità. E dire semplicemente: “Signori non potete costringerci al default, che sarà inevitabile, se non cambiamo le regole del gioco. Da parte nostra ci impegniamo formalmente a considerare gli attuali livelli del rapporto debito/Pil un limite invalicabile. Le colonne d’Ercole della politica finanziaria italiana. Per noi il rispetto della “regola del debito” sarà elemento centrale. Nel brevissimo periodo punteremo ad una sua stabilizzazione, come premessa per una sua progressiva riduzione negli anni successivi. Ma per ottenere un simile risultato, dobbiamo tornare ad essere padroni della linea di politica economica e finanziaria. Il che significa rifiutare quel letto di contrizione rappresentato da limitazioni ex ante del deficit di bilancio. Condizione che rende impossibile risolvere al tempo stesso un’equazione che ha due variabili contrapposte: deficit e tasso di crescita in termini nominali”

Se queste tesi sembrano bizzarre, basta solo vedere i risultati che, il rispetto del “Patto di stabilità” ha prodotto, in Italia. Dal 2011 il rapporto debito/Pil è cresciuto di oltre il 30 per cento. E lo stesso è avvenuto in Francia, Spagna e Portogallo. Solo per citare i casi di economie che hanno strutture produttive e peso specifico, più o meno simili. A dimostrazione che quelle regole possono funzionare, per Paesi come la Germania o l’Olanda, visto i rilevanti attivi delle loro partite correnti delle bilance dei pagamenti, ma si dimostrano deleterie in tutti gli altri casi di economie avanzate. Compresi gli stessi Stati Uniti.

Se l’esperienza empirica non convince, allora è sufficiente prendere in considerazione vari esercizi econometrici. Essi dimostrano che le regole del “Patto di stabilità”, che si cerca di far rivivere con il Mes dopo la bocciatura del Parlamento europeo, non sfuggono alle contraddizioni del teorema della ”trinità impossibile”, elaborato da Robert Mundell, fin dagli anni ‘60. E che può essere facilmente trasposto nelle equazioni di finanza pubblica, per dimostrarne le interne contraddizioni.

Comunque sia, l’Italia è un Paese sovrano. Rispetta quindi i Trattati, liberamente sottoscritti. Ma questo comporta solo accettarne le relative finalità. Nel caso specifico evitare che l’eccesso di debito possa contribuire a minare la stabilità dell’euro. Ma come raggiungere questi risultati spetta solo alle libere determinazioni del popolo italiano. Il che non significa ovviamente rifiutare gli eventuali controlli, anche di carattere internazionale, me essi non possono giungere fino al punto di imporre regole arbitrarie, il cui fallimento è conclamato.

Questa oggi è l’essenza del dibattito politico che si svolge in Italia, al di là delle caricature tra “sovranisti” ed “europeisti”. L’Unione europea può contribuire ad una sua positiva evoluzione. Ma rischiare anche di introdurre ulteriori elementi di rottura, dagli esiti finali imprevedibili. Dato il peso oggettivo che l’Italia ha negli equilibri complessivi del Continente. E quest’ultimo negli instabili assetti delle relazioni internazionali.

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