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Come e perché Confindustria è sempre meno influente

Come sono i rapporti della Confindustria di Boccia con le istituzioni? L'analisi del prof. Giuseppe Berta, storico dell'economia

Dimessosi Renzi, Confindustria troverà nel successivo esecutivo diretto da Paolo Gentiloni un interlocutore ancora più attento alle necessità e alle prospettive di rafforzamento del sistema delle imprese. Avrà soprattutto un partner affidabile in Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico, a lungo assai vicino a Luca Cordero di Montezemolo e buon conoscitore degli ambienti imprenditoriali, mentre questi confiderà in Confindustria per dare seguito al suo programma ambizioso a sostegno della diffusione dell’innovazione, Industria 4.0. Tra mondo imprenditoriale e governo si formerà così una stretta intesa, quale non era esistita con gli esecutivi precedenti. Nell’assemblea confindustriale del 2017, Calenda interverrà con un discorso che alcuni scambieranno addirittura per la candidatura a leader di uno schieramento capace di assemblare il fronte imprenditoriale e il sindacato di indirizzo più riformista come la Fim-Cisl di Marco Bentivogli, pronto a far suo il programma del Ministro legittimandolo con l’avallo di una categoria simbolicamente importante come quella dei metalmeccanici.

Tanto era stata promettente l’assemblea annuale di Confindustria per il 2017 (anche se, ripetiamolo, soprattutto per l’insolita ampiezza dell’intervento del ministro Calenda, ben diverso nei toni dalla ritualità di un saluto governativo) quanto, al confronto, è apparsa scialba e incolore quella tenutasi l’anno dopo. Essa peraltro sarebbe caduta in un momento infelice, quando non era ancora sopito l’effetto sorpresa delle elezioni politiche del marzo 2018 e quando non era ancora chiaro l’approdo al governo gialloverde, incerto fino all’ultimo istante. Fatto sta che così l’assemblea confindustriale finiva coll’essere relegata in un limbo, almeno dal punto di vista politico: l’assenza dei rappresentanti dei due partiti usciti vincitori dalla tornata elettorale, 5Stelle e Lega, in quel frangente presi dal problema della composizione del nuovo esecutivo, ma anche ostentatamente indifferenti verso una Confindustria spesso sommariamente additata come l’espressione di quei “poteri forti” in crisi profonda, che il governo in formazione avrebbe dovuto smantellare. La Confindustria di Boccia aveva quindi l’impressione di dover agire in una terra di nessuno, dove non valevano più i vecchi collegamenti politici e dove i legami erano con gli sconfitti e non con i vincitori delle elezioni.

In realtà, Confindustria avrebbe avuto a propria disposizione vari modi per fronteggiare una situazione imprevista, che minacciava di diventare per essa un cul de sac da cui diventava arduo uscire. Avrebbe naturalmente potuto tentare di agganciare i nuovi protagonisti della politica italiana, perseguendo con disinvoltura la propria naturale attitudine filogovernativa (e in effetti, come vedremo, cercherà poi, invero maldestramente, un contatto con la Lega, visto che i pentastellati esibiscono un volto ostile verso le rappresentanze degli interessi). O avrebbe potuto ripristinare il suo profilo originale, mettendo gli interessi dell’Italia industriale davanti a quelli dei partiti, magari per provare a spiegare ai neofiti del governo quali erano i problemi dell’economia reale di un paese che stentava a ritrovare la via della crescita. Ma, almeno per qualche mese, Confindustria non doveva imboccare né l’una né l’altra direzione. Forse perché era ancora troppo fresco il ricordo della collaborazione fruttuosa ed efficace col partito democratico di Matteo Renzi o forse perché non possedeva il linguaggio giusto per interagire con coloro che avevano sconfitto e respinto all’opposizione non soltanto Renzi, ma anche ciò che restava della Forza Italia di Silvio Berlusconi (un altro soggetto messo nell’angolo dai risultati elettorali). Invece, a battere la strada alternativa della ricostruzione del vero profilo dell’Italia industriale, Confindustria non ci tentò nemmeno; d’altronde, questa semmai era stata la proposta di Alberto Vacchi nel confronto del 2016, una proposta che contro cui Boccia aveva allineato il fronte dei suoi sostenitori.

Di qui i mesi di incertezza che seguiranno, con una Confindustria che palesemente non ce la farà a recuperare la posizione che aveva occupato per anni come interlocutore privilegiato del governo e del sistema politico. A Palazzo Chigi erano arrivati gli hyksos e a viale dell’Astronomia nessuno capiva bene che cosa si dovesse fare per ottenere la loro attenzione, visto che non parlavano col linguaggio né della Prima né della Seconda Repubblica.

Da parte loro, i nuovi inquilini del potere (inquilini peraltro fermamente intenzionati a consolidare la loro posizione governativa) s’erano probabilmente convinti che dal dialogo con un ex potere forte, ormai in crisi palese, come Confindustria ci fosse poco da ricavare. Luigi Di Maio, durante la campagna elettorale, aveva gettato qualche amo verso il sistema confindustriale, chiedendo di incontrare, sebbene in forma riservata, i presidenti di alcune territoriali, specie del Nord, dove i 5Stelle avevano una carenza di radicamento e di credibilità presso il mondo dell’economia. A quanto si racconta Di Maio non aveva ottenuto un granché: i suoi progetti, a partire dal reddito di cittadinanza, non erano certamente fatti per riscuotere un’immediata simpatia fra i ceti economici e professionali. È vero che il candidato pentastellato s’era premurato di far sapere che il suo movimento considerava superflui i sindacati, se non addirittura nocivi, e lasciava comprendere che non avrebbero riscosso l’attenzione di un loro esecutivo. Un intento così ingenuamente formulato non era sufficiente però per accreditarsi presso l’universo imprenditoriale (per giunta un po’ in sospetto verso chi professava la propria non benevolenza verso i sindacati, senza accorgersi che così mostrava di non tenere in grande credito nemmeno le associazioni datoriali). Per il resto, i programmi del 5Stelle erano quanto di più lontano si potesse immaginare rispetto agli interessi economici consolidati: no agli investimenti nelle grandi infrastrutture, no a effettive politiche di sostegno alle imprese come Industria 4.0, no alle politiche per stabilizzare il sistema pensionistico. Insomma, nella piattaforma pentastellata c’era ben poco che potessero apprezzare gli attori imprenditoriali.

A farla breve, insomma, c’erano tutte le condizioni per imporre a Boccia e alla sua associazione uno stato di afasia. Ovvio allora che il presidente di Confindustria cercasse di evaderne, impiegando lo schema collaudato che gli era congeniale: incominciò a intervenire sui primi, rari provvedimenti varati dal governo, esaminandoli dal punto di vista degli effetti economici sulle imprese. Era l’approccio che s’era sempre praticato, ma nel caso specifico avrebbe subito mostrato la corda. Un po’ perché gli atti concreti del governo gialloverde erano a dir poco scarsi e un po’ perché quel metodo di discuterli in pubblico non funzionava. Emblematica la vicenda del Decreto Dignità (che, dietro il nome pomposo, celava alcuni aggiustamenti di non grande spessore del Jobs Act di Renzi). A Confindustria non piacevano le norme che ponevano un limite al rinnovo dei contratti a termine, dopodiché (nell’ottica dei 5Stelle che ne erano i proponenti) le aziende avrebbero dovuto procedere all’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori. Più che altro, col suo altisonante nome, il decreto Dignità mirava a persuadere l’opinione pubblica e la base elettorale del governo che era in questione la flessibilità eccessiva introdotta nel mercato del lavoro. Essa era dunque da sottoporre a restrizione. È chiaro che proprio questo cozzava contro la filosofia della flessibilità nelle relazioni di lavoro sempre perorata da Confindustria, che si sentiva così sfidata sul suo terreno. Le obiezioni espresse da Boccia non sortiranno pertanto altra conseguenza se non quella di rafforzare il convincimento del governo di essersi collocato nella posizione giusta. Proprio la critica portata dai “poteri forti” e dai loro giornali contro l’esecutivo diventava la prova manifesta che l’esecutivo gialloverde s’era avviato lungo un cammino su cui avrebbe dovuto proseguire senza esitazioni. Con simili presupposti, non poteva svilupparsi dialogo alcuno. Sicché Confindustria si scopriva desolatamente isolata, priva della possibilità di esercitare quell’arte dell’interazione coi governi in cui era molto versata.

(2.continua)

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