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Ecco tutti i rischi per l’Italia col nuovo patto Germania-Francia sui fondi Ue

Il commento di Gianfranco Polillo in vista della riunione dell'Eurogruppo di lunedì

L’Italia rischia molto di più. Non solo l’avvio di una procedura ben più dolorosa, rispetto a quella per deficit eccessivo, per il mancato rispetto della “regola del debito”, ma di essere esclusa dalla ripartizione dei futuri fondi del bilancio comunitario. A quanto si mormora a Bruxelles, un accordo di massima tra i ministri delle Finanze di Francia e Germania, Bruno Le Maine e Olaf Scholz, avrebbe portato ad un accordo che escluderebbe i Paesi non in regola con il Patto di stabilità dai finanziamenti del futuro bilancio della zona euro. Accordo che dovrebbe essere sottoposto ad una prima discussione nell’Eurogruppo del prossimo lunedì.

L’Italia, secondo un’anticipazione del quotidiano tedesco Der Spiegel, sarebbe l’imputato numero uno. Di che si tratta? Nella programmazione dei fondi per il periodo 2021 – 2027 sono stati stanziati 22,2 miliardi di euro in un fondo che ha per titolo “Programma di supporto alle riforme”. Dovrebbero servire per incentivare i singoli Paesi a realizzare quelle riforme che sono indicate nelle “Raccomandazioni specifiche”. La pagella che, ogni anno, la Commissione rilascia dopo aver analizzato il programma di politica economica dei singoli membri.

L’intento è evidente. Poiché le riforme comportano sempre un costo in termini politici, lo zuccherino dei maggiori finanziamenti comunitari serve per indorare la pillola e consentire una loro più rapida attuazione. Solo qualche giorno fa il Capo economista di Deutsche Bank, porgendo una mano all’Italia, ricordava, sul Financial Times, che le grandi riforme del mercato del lavoro, in Germania (Peter Hartz), erano state facilitate dal mancato rispetto dei parametri di Maastricht. Un deficit superiore al 3 per cento, per poter intervenire a favore di coloro che dovevano rinunciare ad una precedente situazione di maggior comodo.

La rigidità del Fiscal Compact impedisce di seguire questa vecchia via. Ed allora, ecco, che la Commissione europea assume su di sé l’onere del relativo finanziamento. Maledetto dirigismo: si potrà obiettare, ma una logica intrinseca non può essere negata. Quali riforme incentivare? Quelle – si legge nelle bozze che circolano – “che possono contribuire ad aumentare la resilienza delle economie e avere effetti positivi sugli altri Stati membri”. Quindi: mercato del lavoro e dei prodotti, fisco, sviluppo del mercato dei capitali, ambiente economico e pubblica amministrazione”.

Perché l’Italia rischia di essere fuori? Per la semplice ragione che quelle raccomandazioni – una su tutte: riduzione del deficit dello O,6 per cento, contro un aumento preventivato di 4 volte tanto per il 2019 – non le ha rispettate. Quindi “no sharing (condivisione) – no money”. Ed è stato subito allarme rosso. Soprattutto da parte delle Regioni. Con Vincenzo De Luca che polemizza, non senza ragione, con la Ministra Lezzi.

Questi i fatti. Raccontare i quali, tuttavia, non basta. Il peccato originale italiano, che tutto trascina, è stato quello di non aver contestato, a tempo debito, il Fiscal Compact. Non si trattava di dire, come è stato detto, “chi se ne frega”. Nè tanto meno sostenere la sua semplice impossibile abolizione. Ma proporre le modifiche indispensabili, per garantire una coerenza maggiore con l’intera filiera della legislazione europea. Al fine di coniugare al meglio le esigenze della stabilità finanziaria con quelle dello sviluppo.

Se un Paese presenta uno squilibrio macroeconomico, segnato da un deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l’applicazione delle regole del Fiscal Compact è assolutamente indispensabile. Il caso dell’Italia nel 2011. Addirittura la stretta fiscale dovrebbe essere maggiore, dato il suo carattere anti ciclico. Ma se si è di fronte ad un surplus con l’estero ed un eccesso di disoccupazione, insistere su politiche restrittive – questa volta pro – cicliche – è solo una follia. Che nega, in radice, i principi fondamentali della scienza economica.

Naturalmente una risposta di questo tipo andava costruita in tempo utile. Con un attento lavoro diplomatico ed una condivisione a livello nazionale tra maggioranza ed opposizione. A prescindere dai rispettivi colori. Si è fatto nulla. Per ignavia, non padronanza dei meccanismi, indifferenza? Difficile rispondere. Forse più semplicemente per il fatto che queste apparenti technicalities sono elementi estranei ad una logica politica, che è sempre più solo occupazione del potere. Ma se poi da un primo madornale errore discende un fiume di spiacevoli conseguenze, non c’è un barbaro alle porte. Pronto ad esigere la sottomissione.

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