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Mes

Che cosa deve fare Conte sul Mes (altrimenti si dimetta). Il commento di Polillo

Il governo - come auspicato da Capezzone - ponga il veto sul Mes al Consiglio Ue oppure si dimetta visto che non ha rispettato la risoluzione del Parlamento sul Trattato. Il commento di Gianfranco Polillo

Le bugie, si sa, hanno le gambe corte. Fanno poca strada e alla fine la verità, grande o piccola che sia, riesce ad emergere. Tanto più se le manovre compiute per nasconderla sono state maldestre. Se il linguaggio del corpo tradiva l’imbarazzo. E se tutto congiurava contro l’impenitente: troppo poco accorto per costruire una storia che avesse, fin dall’origine, un reale fondamento. Nessuna sorpresa, quindi, nell’apprendere, come si sapeva da tempo, che l’accordo sul Mes (il Meccanismo europeo di stabilità) non é più emendabile. Ma chiuso fin dall’inizio.

Quindi quel che abbiamo vissuto, solo qualche mese fa, è stato solo una grande messinscena. Con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che si è quasi impiccato, di fronte al Parlamento, nel tentativo di cercare parole che sapeva menzognere. Altro che “logica del pacchetto”, come andava ripetendo. Vale a dire quell’intesa di metodo, già decisa, secondo la quale il Mes avrebbe camminato in parallelo, con il completamento dell’Unione bancaria e la nascita del cosiddetto Bicc: un apposito bilancio per finanziare sviluppo e convergenza tra i diversi partner europei.

Ed invece più che la “logica del pacchetto” la scelta vera era la “politica del carciofo”. Giungere subito all’approvazione del Mes, rinviando il resto a babbo morto. Con una sola concessione non tanto all’Italia. I problemi del “single limb”, a quanto é dato da sapere, non sono stati risolti. Si tratta, com’é noto, dell’esatto rovesciamento di una direttiva, approvata a metà degli anni ‘90. Quella secondo la quale, nell’eventualità di una fuoriuscita dall’euro, con conseguente svalutazione monetaria, i titoli emessi, in mano ai possessori, sarebbero stati comunque rimborsati al valore originario. Salvo la teorica eventualità che la loro maggioranza (circa il 70 per cento), secondo le clausole Cacs, non si fosse pronunciata a favore dell’eventuale tosatura.

Oggi si pensa al contrario. Secondo la tecnica del “single limb”, in caso di turbolenze, basterebbe votare su un singolo titolo, per trascinare nella decisione l’intero debito pubblico di un Paese. Ed imporre, di conseguenza, la sua rinegoziazione. Che non significa altro che riduzione del valore del titolo o allungamento delle relative scadenze. Per l’Italia un balzo indietro di oltre 100 anni. Il ritorno all’Italietta di Quintino Sella o Agostino Depetris, quando la “Rendita italiana”, alla Borsa di Parigi, era tratta a sconto. Con un calo superiore al 30 per cento del suo valore facciale.

Se questo é il quadro, come se ne esce? Il successo del presidente del Consiglio, se così si può chiamare, era stato solo quello di poter posticipare, la firma del Trattato. Tempo trascorso senza conseguenza alcuna ai fini del merito del provvedimento. Siamo pertanto come eravamo mesi fa, in occasione della discussione parlamentare, durante la quale il governo si era impegnato a resistere su una linea di coerenza. “Logica di pacchetto o morte”. E poiché la prima soluzione risulta impraticabile, logica vorrebbe che prendesse corpo la seconda, sotto forma di preannuncio di dimissioni. Per non aver rispettato il deliberato del Parlamento, anche a prescindere da ulteriori processi alle intenzioni. E forti nell’aver maturata questa decisione, presentarsi al prossimo Consiglio europeo e porre, come suggerito da Daniele Capezzone, il veto all’ulteriore iter del provvedimento.

Decisione indubbiamente forte. Ma anche in qualche modo obbligata. Altrimenti, l’alternativa è secca. Si firma il nuovo Trattato, per evitare guai maggiori al proprio Paese, ma poi le dimissioni sono inevitabili. Il 1 agosto del 1992, Bruno Trentin, allora segretario generale della Cgil, rassegnò le dimissioni, dopo aver firmato un accordo con il governo di allora, che non condivideva. Ma che, al tempo stesso, non poteva non firmare, pena conseguenze ancora più negative in quella complessa situazione. Fu il modo per dimostrare coerenza ed al tempo stesso assumersi le necessarie responsabilità. Certo allora, come oggi del resto, lo slogan “uno vale uno” era un non-senso. I tempi, indubbiamente, cambiano. Le persone anche. Ma non necessariamente in meglio.

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