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Alitalia, Cdp e non solo. Cosa vogliono davvero M5S e Lega

L’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta Ci sono tanti segnali che dimostrano che non solo in politica, ma soprattutto in economia, il vento è cambiato. Con la tendenza a ritornare indietro, a prima del Trattato di Maastricht, nel rapporto tra Stato e mercato. La traiettoria perseguita in modo imperterrito per oltre un quarto di secolo, la…

Ci sono tanti segnali che dimostrano che non solo in politica, ma soprattutto in economia, il vento è cambiato. Con la tendenza a ritornare indietro, a prima del Trattato di Maastricht, nel rapporto tra Stato e mercato. La traiettoria perseguita in modo imperterrito per oltre un quarto di secolo, la fuoriuscita completa dello Stato da ogni intervento diretto in economia, sembra essersi invertita.

Dopo l’esercizio da parte del governo del golden power su Sparkle, a tutela degli interessi strategici nazionali, giovedì scorso è stata la volta della Cassa depositi e prestiti, che ha deciso di entrare con il 5% nel capitale di Tim. La Borsa ha approvato l’intervento pubblico: un altro segno che i tempi sono cambiati davvero.

Nel mentre, il Presidente della Repubblica concludeva ol primo, ed interlocutorio, ciclo di consultazioni per la formazione del nuovo governo, in un quadro ancora assai nebuloso.  L’assoluta incertezza sulla composizione della futura maggioranza induce a riflettere ancora sulle motivazioni che hanno spinto tanta parte dell’elettorato a votare per il Movimento 5 Stelle e per la Lega. Il consenso popolare ha premiato le due formazioni che hanno proposto una profonda discontinuità rispetto alle politiche adottate negli scorsi decenni, attribuendo un valore decisivo all’intervento pubblico. Sono posizioni distanti anni luce dal mantra “meno Stato, più mercato”, ed in netto contrasto con la finanziarizzazione dell’economia: tutte a favore dell’economia reale, delle piccole imprese, dei lavoratori autonomi, degli artigiani, dei debitori intesi come parte contraente debole rispetto alle banche, a tutela di chi cerca lavoro. Gli 11 milioni di voti raccolti dal M5S ed i 5,7 milioni dalla Lega rappresentano il malessere di chi in questi dieci anni di crisi non ha né ricevuto tutela da parte dello Stato, né trovato prospettive nel mercato.

Il M5S e la Lega chiedono una decisa inversione di rotta: l’intervento pubblico è necessario sia sul piano sociale, rispettivamente con il reddito di cittadinanza ed il salario orario minimo stabilito per legge, sia per lo sviluppo economico, con investimenti ad alta intensità di occupazione, nelle alte tecnologie, ed al Sud.

Il mercato non basta. Propongono, entrambi, la nazionalizzazione della Banca d’Italia e la separazione delle banche d’investimento da quelle di credito commerciale. Il M5S, in particolare, propone che tutte le risorse delle banche commerciali dovranno obbligatoriamente finanziare l’economia reale, per via del divieto posto alle banche commerciali di operare in strumenti finanziari complessi. Ipotizza poi la costituzione di una Banca pubblica per gli investimenti (BPI) dotata di un capitale iniziale di 10 miliardi che sfrutti i “moltiplicatori” offerti nel mercato sia pubblico che privato, che investa nell’innovazione del Paese e nel finanziamento infrastrutturale necessario a una sana crescita economica. BPI fornirà prestiti e consulenza alle piccole e medie imprese e alle imprese innovative in “settori strategici per il futuro” (abitazione; mobilità; salute, servizi sociali e formazione; tempo libero, cultura e media; energia e ambiente; nuove filiere produttive urbane) accompagnandoli nel loro sviluppo. Ipotizza qualcosa di molto simile alle funzioni da sempre esercitate in Germania dalla KfW, una vera e propria banca pubblica che opera per favorire lo sviluppo economico, assai più attiva anche della consorella francese, la Caisse des Dépôts. In Italia, chi volesse davvero creare nel breve una struttura analoga a quella tedesca, potrebbe far convergere sotto la Cdp sia le Poste Italiane sia il Monte dei Paschi di Siena, per coprire insieme il versante della raccolta e quello degli impieghi.

Anche la Lega propone un intervento diretto dello Stato: all’Alitalia serve un piano industriale serio, un management capace e coraggioso di riprendere in mano la Compagnia con una “missione di pubblica utilità” e non di mero business a corto raggio. Lo Stato dovrà fare la sua parte: non come semplice spettatore od erogatore di denaro ma entrando nel merito garantendo che gli investimenti pubblici abbiano un’effettiva ricaduta a favore dell’economia del Paese.

Bastano questi esempi per capire quanto siano forti le assonanze tra queste due formazioni politiche e quanto ribaltino le strategie di politica economica adottate a livello europeo, ma soprattutto subite dall’Italia, a partire dal Trattato di Maastricht. Perché è in questo Trattato, firmato nel febbraio del 1992, che si introdusse il divieto degli aiuti di Stato alle imprese per non distorcere la concorrenza. Mentre l’Italia avrebbe dovuto smantellare il sistema delle Partecipazioni statali, la Germania fu invece esonerata dal divieto, per vent’anni, per far salvi gli investimenti pubblici nei Lander orientali. La deroga, riprodotta nel Trattato di Lisbona del 2008, è ancora vigente.

Come successe poi anche per l’adozione dell’euro, in Italia ci fu una profonda sottovalutazione delle conseguenze del Trattato: a giugno del ’92 venne varato il decreto legge che trasformava tutti gli enti delle partecipazioni statali in Spa. L’Efim, indebitato oltre ogni misura, perse formalmente la garanzia dello Stato, a nulla valendo per i creditori la clausola che in Italia prevede la responsabilità integrale per il socio unico. Il Club di Parigi insorse e la speculazione si abbatté sulla lira. La liquidazione dell’Efim fu sanguinosa, e rappresentò solo l’inizio dello smantellamento del sistema delle partecipazioni statali, che aveva guidato lo sviluppo economico dell’Italia nel dopoguerra.

Ecco perché, oggi, l’ingresso della Cdp in Tim e la gestione pubblica commissariale in corso da mesi di Alitalia rappresentano un fenomeno politicamente rilevante. Anche se né il M5S né la Lega sono al governo, un’epoca è finita: il mercato non può soddisfare interessi che travalicano la logica commerciale. Tim e Alitalia, d’altra parte, hanno condiviso un destino pressoché analogo, con acquisizioni a cascata che, con lo scopo dichiarato di risanare la gestione, ne hanno invece progressivamente ridotto l’area di operatività: le presenze a livello internazionale della Telecom Italia della Stet, e della Alitalia dell’Iri erano incomparabilmente più vaste di quelle attuali. Dell’Ilva di Taranto e delle acciaierie di Piombino, tutte ex-Italsider, è meglio non parlare: sono sempre sotto la tenda ad ossigeno, in cura da parte del Ministero dello Sviluppo economico. I privati non hanno fatto meglio della gestione pubblica. E del futuro si tace.

Dopo un quarto di secolo, non è solo tempo di bilanci sulle privatizzazioni in Italia: basta guardarsi intorno, per constatare come ogni governo usi ogni strumento per salvaguardare la base produttiva installata sul suo territorio, dal dumping fiscale fino ai dazi doganali.

Il liberismo, fondato sul monetarismo e la teoria dell’offerta da una parte, e sull’interdipendenza globale e la finanziarizzazione dall’altra, ha guidato i processi economici degli ultimi trent’anni. Ora, e non solo in Italia, il pendolo torna indietro: verso il colbertismo, il keynesismo, la autosufficienza produttiva e l’economia reale. Nella Storia, tutto va e viene.

 

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