skip to Main Content

Carige, che cosa farà Malacalza (e perché piagnucola)

Dall'appuntamento del 20 settembre la famiglia Malacalza uscirà fortemente ridimensionata quale azionista di Carige. Comunque vada sarà un insuccesso

 

Comunque vada a finire, la prossima assemblea di Carige – convocata a Genova per venerdì 20 settembre – segnerà un punto di svolta importante nella presenza della famiglia Malacalza nell’istituto di credito ligure. Una presenza che sarà decisamente ridimensionata.

Al momento i principali azionisti di Carige ancora non hanno fatto sapere se parteciperanno o meno all’aumento di capitale da 700 milioni richiesto dai tre commissari del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) per rafforzare il capitale della banca o se addirittura voteranno contro il piano di salvataggio da 900 milioni ( i 700 dell’aumento e i 200 milioni frutto dell’emissione del bond).

Tre strade diverse, una delle quali – l’ultima – potrebbe condurre alla risoluzione coatta amministrativa o all’avvio del processo di risoluzione. La convocazione dell’assemblea peraltro conferma l’impianto già comunicato ovvero che saranno quattro le tranche per l’aumento di capitale: una riservata allo Schema volontario del Fitd (per la conversione del bond), una a Cassa centrale banca, una ai soci attuali – tra cui la quota maggiore è appunto dei Malacalza – e una al Fitd.

Da ricordare che – per far partire il piano di salvataggio della banca – dovranno essere presenti in assemblea azionisti che detengano almeno il 20% del capitale e dovranno dire di sì almeno i due terzi dei presenti.

CHI E’ LA FAMIGLIA MALACALZA

Vittorio Malacalza, 82enne nato a Bobbio, in provincia di Piacenza, presidente della Malacalza Investimenti, e i figli Davide e Mattia detengono il 27,5% dell’istituto ligure e sono i primi azionisti di Carige in cui sono entrati nel 2015. Anzi, considerando le altre quote detenute dal capostipite, si arriva a una partecipazione totale pari al 27,7% circa.

Vittorio, dopo un’esperienza da dirigente in Ansaldo, negli anni Sessanta ha fondato una società che operava nelle infrastrutture stradali e negli anni Ottanta ha rilevato una partecipazione importante in Duferco, azienda del settore siderurgico. In seguito, una serie di altre acquisizioni nel comparto per arrivare poi – tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila – a diversificare gli investimenti nell’alta tecnologia.

A cavallo tra il 2015 e il 2016 Malacalza ha comprato il 17,6% delle quote di Carige per 250 milioni. Partecipazione che è salita prima al 20% e poi al 23,9% nel 2018. A dicembre l’azionista di maggioranza ha respinto la precedente proposta di ricapitalizzazione da 400 milioni, rendendo di fatto conclamata la crisi della banca. Da notare che in questi anni si sono avvicendati alla guida dell’istituto di credito ligure ben quattro tandem di manager.

In quest’ultima partita il ruolo dei Malacalza è importante pure perché potrebbe estendersi ad altri grandi e piccoli azionisti come Gabriele Volpi (che possiede una quota del 9%), Raffaele Mincione (5,4%), la famiglia Spinelli (1%). Poche settimane fa il presidente del Fondo interbancario, Salvatore Maccarone, si è mostrato ottimista: “Credo sia verosimile che l’operazione possa proseguire. Senza il loro contributo abbiamo detto parole a vuoto”. E alla domanda se dunque occorra attendersi dai Malacalza un impegno nell’aumento di capitale ha risposto: “Più che un impegno è una aspettativa ragionevole”.

COME CAMBIERA’ LA PRESENZA DEI MALACALZA DOPO L’ASSEMBLEA DEL 20 SETTEMBRE

Come dicevamo, sono tre gli scenari possibili di fronte ai quali ci si troverà venerdì prossimo. Nel caso in cui i Malacalza votassero a favore dell’aumento di capitale da 700 milioni i vecchi azionisti potrebbero tutti insieme conservare una quota pari al 12% post salvataggio. Per i Malacalza, che in Carige hanno investito dal 2015 a oggi oltre 420 milioni di euro, non sarebbe di certo una passeggiata: sottoscrivendo il 27,55% degli 85 milioni della tranche riservata ai soci attuali, dovrebbero sborsare altri 23 milioni. In questo modo conserverebbero una quota del 5,1%. Se invece approvassero l’aumento di capitale senza però parteciparvi la loro quota scenderebbe al 2%. Votando no all’aumento di capitale, il serio rischio è che l’operazione possa naufragare e che dunque si vada verso la liquidazione coatta amministrativa o verso l’avvio del processo di risoluzione.

IL PIANO B DI BANKITALIA E BCE

Secondo indiscrezioni raccolte dal Messaggero, però, se le cose si dovessero mettere male e l’assemblea bocciasse il rafforzamento di capitale la Banca centrale europea e la Banca d’Italia potrebbero ricorrere a un piano B: convocherebbero a stretto giro un’altra assemblea – visto che il mandato dei commissari scade il 30 settembre – congelando i diritti di voto dei Malacalza in nome della stabilità finanziaria e della tutela degli azionisti.

Back To Top