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Alitalia, Ilva e non solo. Che fine faranno industria e servizi in Italia? Analisi

Casi Alitalia, Ilva e non solo: politica industriale o psicanalisi nazionale? L'analisi di Paolo Rubino e Salvatore Santangelo

Alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, la cultura dell’Occidente Atlantico ha vissuto l’apice del pensiero liberista nato sul finire degli anni ’70. La conseguenza più profonda di tale processo è stata la trasformazione massiccia dei suoi cittadini da produttori a consumatori. L’alimentazione dei consumi è stata sostenuta in misura crescente dal flusso delle rendite piuttosto che del reddito. La necessità di flussi di rendita elevati ha portato al predominio della finanza sull’economia. È incerto se l’evoluzione demografica sia causa o effetto di questi cambiamenti. Ma se in parte ne è all’origine, elevati consumi e rendita finanziaria hanno accelerato lo spettacolare incremento delle aspettative di vita e dell’età media delle popolazioni occidentali. In Italia questa è passata dai 36 anni del 1990 ai 46 del 2018 ed è destinata a raggiungere i 52 nel 2050 trasformandola nell’area più vecchia d’Europa e seconda al mondo dopo il Giappone.

In questo scenario, pure per la necessità di provare a ridurre lo stock di debito accumulato dal settore pubblico, e anche dalle grandi imprese private, nel decennio degli ’80, nel nostro Paese ha preso piede il più poderoso processo di dismissione di attività industriali mai visto da parte di uno Stato nazionale in tempo di pace, cioè non susseguente a una grave sconfitta militare. Il clima culturale che ha facilitato lo smantellamento di interi settori industriali è stato contrassegnato da parole d’ordine di potente impatto mediatico. Tra le più ricorrenti: “Non ha senso aiutare una grande impresa in difficoltà per favorirne la proprietà, privata o pubblica, e pochi ricchissimi manager!”; “Piccolo è bello e una rete di piccole imprese è la vera esaltazione delle qualità nazionali”; “Il settore pubblico non può impegnare le risorse di tutti per produrre panettoni”; “Il costo del lavoro in Italia è troppo alto e la produttività dei lavoratori troppo bassa”; “Infrastrutture materiali e immateriali italiane – giustizia, sistema scolastico, difesa – sono obsolete e inefficienti nel favorire gli affari”; la madre di tutte le parole d’ordine, quella definitiva, “Perché insistere nel produrre un bene o un servizio se un’impresa concorrente straniera può farlo con soddisfazione dei consumatori nazionali uguale o maggiore?”.

Le conseguenze contemporanee di questo processo sono, in positivo, l’ineguagliato record delle aspettative di durata della vita, la robustezza dei patrimoni privati, la floridità della rendita, l’incredibile flessibilità del lavoro a favore del tempo libero, la proliferazione di località ricche di appeal per i rentier. In negativo, la progressiva perdita della capacità di lavorare, in altri termini degli animal spirit nazionali. Il dibattito nazionale verte, oramai da quasi due decenni, intorno al dilemma tra la preservazione, al prezzo di un ulteriore annichilimento degli animal spirit, dei risultati positivi raggiunti e un improbabile acritico ritorno al passato degli anni ’50 e ’60 ricercato soprattutto attraverso l’ancor più improbabile arroccamento a difesa di confini, purezze etniche e valori di un vecchio mondo sepolto dalla storia. La fine della chimica, dell’acciaio, dell’automobile, dell’elettronica, dell’aviazione, delle telecomunicazioni. L’obsolescenza, dapprima predicata, oggi finalmente raggiunta delle infrastrutture materiali e l’imbastardimento di quelle immateriali, in primis scuola e giustizia contaminate da dosi massicce, ma casuali, acritiche e prive di organicità, di pragmatismo anglosassone hanno prodotto la fuga dei cervelli nazionali, lo scarso appeal per quelli stranieri e la trasformazione del territorio nazionale in terra di nessuno aperta a ondate di immigrazione transitoria e poco interessata all’integrazione e al rimpolpamento della nazione.

Il 2020 italiano si apre con tutte le crisi che ci accompagnano da anni senza apparenti soluzioni. Fiat si avvia a completare il suo percorso di uscita dall’attività di ricerca e di produzione locale, Telecom resta in balia della guerra tra americani e francesi, Finmeccanica, ora Leonardo, priva di sbocchi interni alla produzione, avviata a trasformarsi a sua volta in entità finanziaria piuttosto che industriale, Eni arranca nell’assenza di un ruolo dirigente della politica estera italiana, Ilva resta ostaggio dell’irresolutezza nostrana e delle strategie globali indofrancesi, la rete viaria in appannaggio a valvassori e valvassini cui è stato consentito di diventare esattori, porti e aeroporti abbandonati al connubio tra miopi potentati locali e ambiziosi protagonisti stranieri. Università ridotte a produttori di cervelli, talvolta eccellenti, da esportare a favore di centri di ricerca e sviluppo europei quando va bene, altrimenti di oltreoceano. Tra tutte, una volta di più si fa notare Alitalia. Pezzo imprescindibile del grande settore dell’aviazione è considerata da opinione pubblica e classe dirigente alla stregua di una Pernigotti, con tutto il rispetto che l’antica cioccolateria ligure comunque merita. Poco importa che l’aviazione rappresenti l’industria mondiale a maggior impiego di capitale in ricerca e sviluppo, probabilmente perfino superiore al settore dell’energia. Che impieghi una quantità elevata di lavoro umano qualificato, che i suoi acquisti di tecnologie aeronautiche siano in grado di influenzare le dinamiche e gli equilibri geopolitici. Il punto di vista prevalente è che Alitalia valga tuttalpiù per i turisti che può portare in Italia, e questo la dice lunga sulla percezione di sé degli italiani. Che essa sia il crocevia di una complessità economica transnazionale è elemento sommerso nella psiche nazionale per far emergere la quale, prima ancora che una politica industriale è probabilmente necessario il ricorso a una lunga pratica di psicanalisi profonda per il Paese.

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