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Ecco gli Stati che bloccano l’accesso ai social network

I social network oramai non riguardano solo la vita dei singoli ma anche degli Stati, dei Paesi, delle istituzioni e della politica. Possono essere una potente arma politica, non solo nelle campagna elettorali dei paesi democratici, ma anche un forte sostegno per chi combatte per la libertà e la democrazia.

E proprio per questo alcuni Governi nel mondo hanno bloccato l’accesso ai social network per evitare che le notizie anti regime si diffondano. 

Solo qualche anno fa, infatti, è stato paradigmatico l’utilizzo del web fatto dai movimenti di opposizione politica fautori della Primavera Araba. Nei Paesi in cui ci sono state le più forti contestazioni ai regimi come la Libia, la Tunisia, la Siria, e l’Egitto, dove il dittatore egiziano Hosni Mubarak, al culmine della ribellione contro il suo regime nel gennaio 2011, impose il blocco dell’accesso alla Rete.

Il Primo Ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, a causa del suo recente coinvolgimento in un grave scandalo di corruzione per le elezioni amministrative turche del 30 marzo scorso, per distogliere l’attenzione dal broglio elettorale, aveva posto il blocco tra il 21 e il 22 marzo di Twitter e Facebook, ma il blocco è durato solo ventiquattro ore. Secondo Hurriyet online dopo l’esplosione della notizia del broglio che ha coinvolto molte personalità del regime, Erdogan ha rimosso migliaia tra poliziotti e magistrati, fra cui i responsabili delle inchieste sulla corruzione. Il leader dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu ha denunciato una svolta autoritaria e ha chiesto le dimissioni immediate del premier, definendo questo un “tentativo di colpo di stato”.

In Iran nel 2009, in seguito alle elezioni presidenziali aspramente contestate, il governo ha bloccato Facebook, Twitter e YouTube, assieme ai servizi di messaggistica istantanea come Viber, WeChat e Whatsapp. Gli utenti sono riusciti molto spesso ad aggirare i blocchi sulla rete imposti dalle autorità, nonostante le pressioni del moderato Hassan Rohani, che ha chiesto l’abolizione della censura, l’ala dei conservatori non ha cambiato idea. Il Ministro degli Interni iraniano è anche intervenuto a favore della riapertura del blocco per i social network, ma nel paese, il Supreme Council for Cyberspace, l’Organized Crime Surveillance Centre e le Revolutionary Guards, sovrintendono alle politiche repressive del paese e continuano a controllare le comunicazioni degli utenti internet, con particolare attenzione verso i giornalisti e gli attivisti politici.

Nel 2009, la Cina ha bloccato Facebook, Twitter e YouTube, in seguito a una protesta pacifica degli Uighur, minoranza islamica che vive nei territori del nord-ovest del Paese, protesta poi degenerata e sfociata nel sangue causando oltre 200 morti, 1.700 feriti e migliaia di arresti. Nel settembre 2013 inoltre, il governo prese la decisione di fermare la censura dei siti stranieri nella Free Trade Zone di Shanghai, area di libero scambio che negli obiettivi del governo doveva togliere a Hong Kong il ruolo di piazza principale del mercato cinese. 

A Mosca invece, il Cremlino ha approvato un pacchetto di leggi anti-terrorismo, che dopo gli attentati di Volgograd, mirano a riscrivere le leggi sull’informazione, inclusa ovviamente anche quella della rete. Da Mosca chiedono di spostare i server di Google, Microsoft con Gmail e Skype direttamente in territorio russo, altrimenti bloccheranno l’accesso a questi servizi su tutto il territorio. Singolare è il caso del russo Pavel Durov – innovativo fondatore di Vkontakte, una sorta di Facebook russo – il quale si trova in esilio all’estero e ha fondato Telegram, una app che fornisce un servizio di messaggistica concorrente di WhatsApp, da sempre in conflitto con il Cremlino.

In Pakistan, nel settembre 2012, è stato bloccato YouTube, per la diffusione del film ‘The Innocence of Muslims’, che ha condotto alle violente proteste sfociate nell’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia. Allo stato attuale, in Pakistan, risultano bloccati tra i 20 mila e 40 mila siti del web, e il governo sta lavorando a una propria rete – battezzata ‘halal internet’ – per riuscire ad acquisire un’indipendenza informatica dal resto del mondo.

 

 

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