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Una memorabile partita a scopone tra Pertini, Andreotti, Berlinguer e D’Alema

Il Bloc Notes di Michele Magno Febbraio 1984: muore Jurij Andropov, successore dell’intramontabile Leonid Breznev. Stava per aprirsi, dopo la breve parentesi di Kostantin Cernenko, l’era di Michail Gorbaciov e della perestrojka. Ma gli italiani in volo per partecipare ai funerali del segretario del Pcus non potevano saperlo. Erano il presidente della Repubblica Sandro Pertini,…

Febbraio 1984: muore Jurij Andropov, successore dell’intramontabile Leonid Breznev. Stava per aprirsi, dopo la breve parentesi di Kostantin Cernenko, l’era di Michail Gorbaciov e della perestrojka. Ma gli italiani in volo per partecipare ai funerali del segretario del Pcus non potevano saperlo. Erano il presidente della Repubblica Sandro Pertini, il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il leader del Pci Enrico Berlinguer e il giovane dirigente comunista Massimo D’Alema. Appena terminato il decollo, uno steward militare si avvicina premuroso agli ospiti con un mazzo di carte e un blocchetto segna-punti, assecondando un’abitudine che conosceva bene. Pertini, infatti, sfruttava ogni occasione gli si offrisse per giocare a scopone.

Al Quirinale era solito arruolare come avversari i suoi ospiti, e come compagni il maresciallo di polizia o l’ufficiale dei carabinieri addetti alla sicurezza personale. Pertini, insomma, amava giocare e amava vincere. Le sconfitte lo rendevano furibondo, e spesso le attribuiva alla scorrettezza altrui, in particolare al ricorso a cenni d’intesa fraudolenti. Lo fece anche con Enzo Bearzot e Franco Causio nel viaggio di ritorno da Madrid, dopo aver assistito alla finale dei campionati mondiali di calcio del 1982. Nell’aereo diretto a Mosca, quindi, la sfida a scopone era scontata.

Andreotti fa coppia con D’Alema, Pertini con Berlinguer. Alla terza e ultima partita -la bella- accade l’imprevedibile in una mano decisiva. Il settebello del cartaro Andreotti è pericolante, a causa di uno spariglio iniziale di tre e quattro. Ad un certo punto, Pertini cala incautamente un quattro su un tre. D’Alema, con un sorrisetto beffardo sotto i baffi, esclama: “Presidente, questo non avrebbe mai dovuto farlo!”, e ricompone spavaldamente lo spariglio di sette che avrebbe inguaiato il suo compagno mazziere. Lo sguardo di Pertini diventa cupo, fino a quando Andreotti -con una mossa da principiante inaspettata- ripropone uno spariglio di sette e perde il settebello, violando la trentesima regola di Chitarella. Sconcerto di D’Alema, sorriso imbarazzato di Berlinguer, sbotto trionfale di Pertini: “Ragazzo mio, devi crescere ancora molto prima di dare lezioni a me!”. Più tardi, a D’alema che pretendeva una spiegazione della sua sventatezza, Andreotti sussurra: “Caro amico, non si fa perdere un capo dello Stato che si chiama Pertini, e per di più dopo averlo sfottuto!”.

Una versione più estesa di questo gustoso aneddoto, una specie di metafora ante litteram dello scontro tra generazioni nella politica italiana, si può trovare in un divertente volumetto di Oscar Mammì, che è stato autorevole ministro e abile giocatore di scopone (“Dello scopone, ovvero il gioco della politica”, Mursia, 2000). Non deve quindi meravigliare che questo gioco abbia sempre avuto tra i suoi innumerevoli appassionati, accanto a letterati e intellettuali prestigiosi come Luigi Pirandello e Mario Soldati, importanti uomini politici. Tra gli altri (oltre a quelli già citati): Ugo La Malfa, Luciano Lama, Giancarlo Pajetta, Carlo Azelio Ciampi. Non solo perché tra tutti i giochi di memoria e di ragionamento è forse il più interessante e complesso: “d’ingegno e virtuoso”, come lo ha definito Paolo Monelli. Ma perché, come recita l’ultima regola di Chitarella: “… philosophia scoponis est in longiquum spectare et ultra lucrum proximum remotos exitus considerare” (la filosofia dello scopone sta nel guardare e considerare, al di là del vantaggio immediato, il risultato finale).

Ma chi era Chitarella? Come per Omero, di lui non si sa nulla. Come per Omero, a cui gli antichi greci prima attribuirono ogni sorta di componimento epico, poi soltanto l’Iliade e l’Odissea, anche le sue opere più celebri sono solo due, ma anch’esse -nel loro piccolo- immortali: il “De regulis ludendi ac solvendi in mediatore et tresseptem” e il “De regulis scoponis”. Nell’edizione curata da Enrico Malato viene richiamata la ricerca condotta dal giornalista e storico napoletano Gino Doria sull’identità del misterioso autore. In una lettera del 25 febbraio 1946 inviata a Benedetto Croce, Doria ammette di aver investigato su quella identità ricavandone solo la conferma di una vecchia quanto scarna tradizione locale, secondo cui Chitarella sarebbe stato un prete napoletano vissuto nel diciottesimo secolo. Confessa, poi, di aver pensato che potesse essere il personaggio realmente esistito di cui stava scrivendo la biografia.

Questo personaggio è Sebastiano Natale Ricciardi, nato in Airola nel 1716 da un maestro di posta e da una nobildonna. Professore di lettere a Santa Maria di Capua, viene sospettato d’eresia e incappa nei rigori del tribunale dell’Inquisizione. Avendo trascorso alcuni mesi in una umidissima prigione, vi contrae un’artrite che lo affligge senza soste e lo induce a compilare in vecchiaia una serie di sonetti dal titolo “Pensieri di un podragoso”. L’artrite, comunque, non gli impedisce di sedurre la figlia sedicenne del custode delle carceri. Appena liberato la rapisce e la porta nella casa paterna, rimasta vuota dopo la scomparsa dei genitori. Ricercato dal padre inferocito della fanciulla e dai gendarmi per ratto di minore, l’abbandona incinta e si rifugia nello Stato pontificio. Il resto della sua vita è altrettanto disordinato e avventuroso. Accusato di veneficio, viene processato e poi assolto, ma la sua reputazione è rovinata. Si ritira allora in campagna, dove coltiva interessi filosofici e letterari fino a 83 anni.

Perché, dunque, questo avventuriero dovrebbe essere proprio Chitarella? A sostegno della sua ipotesi, Doria cita un passaggio del “Voyage dans le deux-Siciles” del Dupuy, da cui si evince che Ricciardi era noto come il “signore della chitarra” (da cui Chitarella), strumento in quel tempo assai meno diffuso del mandolino. Secondo altri studiosi, invece, egli era un prete illuminista partenopeo. All’epoca dei Borboni gli illuministi a Napoli certo non mancavano. Ufficiali del regno, come Gaetano Filangieri e Giuseppe Palmieri; letterati e filosofi, come Francesco Mario Pagano e Melchiorre Delfico; giuristi, come Domenico e Francescantonio Grimaldi; geografi, come Giuseppe Maria Galanti. I preti però erano soltanto due: Francesco Longano e Antonio Genovesi. Longano, allievo di Genovesi e da lui scelto per sostituirlo alla Cattedra di Commercio, non era campano ma molisano. E poi ebbe una vita così triste e misera, come la descrive Franco Venturi (“Illuministi italiani. Riformatori napoletani”), per cui si può ragionevolmente dubitare che si dilettasse nel gioco dello scopone o addirittura ne codificasse le regole. Rimane Antonio Genovesi, il più illustre degli illuministi napoletani, sebbene fosse nato nel 1713 a Castiglione, nell’area salernitana.

A diciotto anni, divenuto chierico di un ordine minore, si innamora di una coetanea, una leggiadra “pizzonchera” adocchiata in chiesa: “la più bella giovine -si legge nella sua autobiografia- che fosse in quei luoghi, ove ce n’ha delle bellissime. Era ben fatta nella persona, aveva il volto rotondo e pienotto, il colore bianco e rosso, gli occhi negri e pieni di natural verecondia”. L’amore dura un paio d’anni, finché il severissimo padre di Genovesi ne viene a conoscenza e esilia il figlio a Bucino, ai confini della Basilicata. Dopo aver saputo che la bella pizzonchera si era sposata con un “ispido e feroce capraio”, Genovesi abbraccia la carriera ecclesiastica. Si dedica agli studi di metafisica, ma presto viene tacciato di eresia dalla curia guidata dal cardinale Spinelli. Per evitare un probabile processo, decide di non pubblicare la sua “Istituzione teologica”, in odore di eresia.

Genovesi passa così agli studi di economia, da cui derivano quelle “Lezioni sul Commercio” che rappresentano una pietra miliare dell’Illuminismo italiano. È possibile che in quel periodo si sia dedicato anche alle regole dello scopone? Non si può escludere. Infatti, analizza i giochi allora in auge in un apposito capitolo della “Diceosina o sia la filosofia del giusto e dell’onesto”, distinguendo quelli di mente da quelli di fortuna o d’azzardo. Tra i giochi di mente annovera gli scacchi, nei cui confronti è sorprendentemente sprezzante: “… non conviene che ne’ regni dispotici, come quello che impoltronisce il corpo e istupidisce l’animo”. I giochi d’azzardo sono: “la lotteria, il piribisso, la bassetta, il faraone, il giuoco de’ dadi”. Mentre i giochi di carte che “non sono di puro azzardo, appartengono alla classe de’ misti, intervenendovi colla perizia sempre molto la sorte”.

In verità, non avendo incluso lo scopone tra i giochi di mente, quel “puro azzardo” e quel “molto” per un cultore della materia come era Mammì dimostrerebbero che Genovesi non può essere Chitarella. Quest’ultimo, in effetti, conclude l’esposizione delle regole del mediatore e del tressette sentenziando: “Hactenus de regulis, reliquum in fortuna” (Fin qui le regole, il resto alla fortuna), ma si guarda bene dall’affermarlo per lo scopone. La “Diceosina” fu pubblicata nel 1766, Genovesi morì nel 1769. Può darsi che abbia scoperto lo scopone negli ultimi tre anni della sua vita. È difficile, ma in fondo che importa? Importa che il secolo dei Lumi ci abbia dato non solo i tre sacri principi del 1789 (che sono stati sempre violati), ma anche le quarantaquattro regole di Chitarella (che non si possono mai violare).

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