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Un tuffo nel passato: la rivoluzione del metro in Italia

Il Bloc Notes di Michele Magno Se ci chiediamo qual è l’invenzione che ha caratterizzato il passaggio dal secondo al terzo millennio, la risposta non può che essere il computer, la macchina per i calcoli universale, quello che una volta veniva chiamato “cervello elettronico”. Nella prima metà del Novecento un maestro del cinema come Charlie Chaplin…

Se ci chiediamo qual è l’invenzione che ha caratterizzato il passaggio dal secondo al terzo millennio, la risposta non può che essere il computer, la macchina per i calcoli universale, quello che una volta veniva chiamato “cervello elettronico”. Nella prima metà del Novecento un maestro del cinema come Charlie Chaplin aveva utilizzato la catena di montaggio come simbolo dei “Tempi moderni”, anche se per denunciare l’alienazione che produceva. Oggi il simbolo della modernità non potrebbe essere che un chip. Nell’arco di un trentennio il microprocessore ha cambiato il nostro modo di consumare, di lavorare, di divertirci, di curarci. Insomma, ha cambiato la nostra vita. Se invece potessimo chiedere ai nostri antenati dell’Ottocento qual è l’innovazione che più ha cambiato la loro vita, probabilmente darebbero una risposta che a molti parrebbe stravagante.

Eppure, quando spieghiamo a un turista la strada per un monumento, tendiamo spontaneamente a dare indicazioni in cifra tonda (“Dopo cento metri, volti a…”). Più in generale, ci esprimiamo per cifre tonde perché sono rapide da comunicare, anche se il nostro interlocutore sa che sono approssimative. Ogni sistema di misura, del resto, è congegnato attorno a specifiche soglie numeriche che finiscono per determinare quello che pensiamo, e non solo quanto mangiamo o spendiamo. Abbiamo constatato la potenza di questo fenomeno col passaggio dalla lira all’euro, laddove i prezzi sono lievitati anche per adeguarsi alle soglie decimali della nuova moneta.

Ebbene, qualcosa di ancora più dirompente è accaduto due secoli fa con la comparsa del sistema metrico. Gli italiani si sono sottoposti a un meticoloso e lunghissimo allenamento collettivo, prima di interiorizzare una innovazione che cambiava la loro percezione della realtà. Oggi ci sembra naturale quantificarla secondo le divisioni e i multipli del metro. Ma non era così agli inizi dell’Ottocento. L’introduzione del metro in Italia è stato un cammino accidentato, interrotto da accesi contrasti e accanite resistenze. I suoi detrattori non mancavano di pronosticare reazioni negative dei ceti popolari e rischiosi sconvolgimenti nei mercati, nei costumi e negli equilibri di potere delle comunità locali. Ciononostante, il tema è rimasto in ombra nella storiografia risorgimentale. Forse perché è stato sempre considerato un aspetto tecnico della più ampia vicenda del liberalismo commerciale ottocentesco. Al contrario, ha giocato un ruolo non trascurabile nella formazione dell’identità nazionale, come sostiene Emanuele Lugli (“Unità di misura. Breve storia del metro in Italia”, il Mulino, 2014).

I natali del sistema metrico decimale sono francesi. Nel marzo 1790, Charles-Maurice de Talleyrand (1754-1838) sollecita -in un discorso alla neoeletta Assemblea Costituente- una riforma radicale delle vecchie misure. Gli ideali rivoluzionari della libertà e dell’uguaglianza, infatti, non potevano tollerare nessuna reliquia dell’Antico regime. L’Accademia delle scienze si mette subito al lavoro, nominando un comitato composto dai più illustri scienziati del tempo: Jean-Charles de Borda, Joseph-Louis Lagrange, Antoine-Laurent Lavoisier, il marchese di Condorcet, a cui si aggiungeranno Pierre-Simon Laplace e Gaspard Monge. Il comitato era chiamato a sciogliere due nodi: come stabilire il rapporto tra le misure di lunghezza e di peso, e come scegliere il campione di riferimento.

Dopo un anno di esperimenti e di discussioni vivaci, alla fine prevalse l’idea di uniformare tutte le misure a una unità lineare. Con un tocco classicheggiante, tale unità viene chiamata metro (dal termine greco che significa misura) e viene definita come la decimilionesima parte del meridiano terrestre dal polo nord all’equatore. Non casualmente essa era vicina alla metà della “toise”, il campione di lunghezza parigino. La scelta dell’Accademia accantonava così l’ipotesi caldeggiata dallo stesso Talleyrand: quella di assumere la lunghezza dell’oscillazione del pendolo in un secondo come unità di riferimento. Thomas Jefferson l’aveva suggerita qualche mese prima sull’altra sponda dell’Atlantico, e più tardi sarà assunta dal sistema di misure americano.

“La campagne d’Italie a commancé”, scriveva Bonaparte il 25 aprile 1796 sul “Moniteur universel”. Il 15 maggio entrava a Milano.Sconfitti gli austriaci e conquistata Venezia, nel 1797 fonda la Repubblica cisalpina. Sarà il primo Stato della penisola dotato di una Costituzione che dichiarava l’obbligo del sistema metrico. Il problema era sentito da tempo. Già nel 1778 le autorità austriache avevano commissionato un rapporto a Cesare Beccaria (1738-1794), amico e collaboratore di Pietro Verri. Dopo aver censito ben ventidue sistemi di misura, proverà a raccomandare -inascoltato- l’adozione del sistema decimale, dal momento che “con questa sola specie di frazioni si calcolano in tutta la più colta Europa li fenomeni misurabili della fisica, e con questo misurano li geometri i rapporti li più complicati dell’estensione”. Le sue esortazioni verranno riprese e sviluppate da Melchiorre Gioia (1767-1829) nel “Nuovo prospetto delle scienze economiche” (1815-1817). Ma non avranno migliore fortuna. Sebbene minuziosamente descritto nei manuali scolastici e previsto dal codice penale napoleonico, dopo un decennio di reiterati tentativi il metro continuava a essere impiegato episodicamente e a fianco dei vecchi campioni.

Pur avendolo formalmente abolito al Congresso di Vienna (1814-1815), le grandi potenze erano però restie ad abbandonarne i vantaggi pratici, particolarmente evidenti nei traffici fluviali. Ma c’era dell’altro. Gli archivi dell’epoca dimostrano come il metro fosse ben radicato nella cultura dei ceti tecnici, in particolare in quella degli architetti e degli ingegneri. I testi galileiani, che costituivano il nocciolo del sapere di questi “professionisti dello spazio”, avevano scisso l’analisi estetica dal calcolo strutturale degli edifici e delle opere pubbliche, militari e civili. Separazione che esigeva un sistema di misure dai chiari rapporti fra pesi e campioni di lunghezza.

Per Antonio Genovesi (1712-1769), titolare della prima cattedra di economia politica in Europa, era scandaloso che il Regno delle Due Sicilie ignorasse i suoi confini. La produzione cartografica non poteva quindi prescindere dalla definizione di “misure certe” per superare questa lacuna. L’illuminista partenopeo non poteva però immaginare che, grazie al progresso tecnologico, nel nuovo secolo anche gli strumenti topografici più comuni -teodoliti, barometri, livelle e sestanti- sarebbero divenuti assai più esatti e affidabili. Né poteva immaginare che a tali strumenti si sarebbe affiancata la tecnica incisoria della litografia, che permetteva la riproduzione in serie degli atlanti e delle mappe. Non più monopolio dei gabinetti scientifici, potevano finalmente entrare anche nei salotti privati e nelle aule scolastiche.

Nel 1840, Carlo Cattaneo (1801-1869) sulle colonne del “Politecnico” esortava “gli scienziati e gli artisti e i commercianti italiani, a volersi ridurre una volta dal perditempo di palmi e piedi e bracci e tese e miglia d’ogni stato e d’ogni città, all’unica misura metrica, come noi abbiamo sempre avuto la cura di fare, e come la facilità degli utili studii e la lealtà commerciale richiede”. Nel 1845, sul “Foglio commerciale” di Milano si poteva leggere: “Il sistema metrico prosegue le sue conquiste pacifiche e ben presto porrà un argine alla confusione, che per sì lungo tempo ha regnato nelle operazioni commerciali delle diverse nazioni. Di già il Belgio, le provincie Renane, e più recentemente la Sardegna, hanno messo in pratica il nuovo sistema; quanto prima esso valicherà i mari […]”.

Anticipato da un editto del 1844, nel Regno di Sardegna il sistema metrico decimale diventerà obbligatorio solo nel 1850. Un gradualismo voluto da Cavour, memore anche dei moti che nel 1848 avevano defenestrato François Guizot (1787-1874). In un discorso al Parlamento subalpino, aveva ricordato che i contadini erano pagati in derrate alimentari, e che se fossero stati retribuiti in una “misura che nella loro mente non rappresenta ancora verun’idea nota e distinta, d’onde sicuramente ne nascerebbe in questa classe numerosissima molto malcontento e irritazione”. Per altro verso, a una borghesia preoccupata di perdere i propri privilegi ribadiva che “l’industria nostra non sarà né oppressa, né rovinata, ma anzi ne sarà stimolata, giacché si è appunto collo stimolo della concorrenza che si fa progredire l’industria”.

Lo statista piemontese alla fine vincerà la partita anche grazie all’appoggio del clero cattolico, che gestiva la maggior parte dell’educazione primaria del Regno. Nel 1849 le Scuole Cristiane pubblicano un manuale dall’impaginazione moderna per l’apprendimento del sistema metrico, che sarà il più diffuso fino al primo decennio dell’unità d’Italia. Nello stesso anno Giovanni Bosco (1815-1888), un giovane prete che insegnava ai ragazzi poveri del rione torinese del Valdocco, compila “Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità”. L’opuscolo, anch’esso di enorme successo, illustrava i benefici sociali del metro e quelli economici del liberismo, alternando dimostrazioni numeriche a spaccati di vita. Nella visione di don Bosco, il sistema metrico si configurava non solo come una imprescindibile necessità pratica, ma come una leva potente di unificazione culturale.

Il 15 settembre1859 un decreto regio, poi esteso a tutte le altre annessioni, rendeva vincolante l’uso del metro in Lombardia. Nelle regioni meridionali verrà posticipato al 1863. Iniziava un complesso processo organizzativo, spia del centralismo che avrebbe plasmato le istituzioni dello Stato unitario. L’egemonia del sistema metrico nelle fiere e nelle conferenze scientifiche,l’abbandono dell’imperfetto meridiano francese e la sua sostituzione con quello di Greenwich, la diffusione della nuove misure -il metro, il kilogrammo e il litro- in tutto il Vecchio continente, daranno un colpo decisivo alle scorie e alle reminiscenze del passato. Sarà proprio un italiano (uno di quelli che avevano aperto una breccia a Porta Pia), Gilberto Govi (1826-1889), a redigere la “Convenzione nazionale del metro” siglata a Parigi dai rappresentanti di ventotto nazioni (maggio 1875). La Convenzione prescriveva la fabbricazione dei campioni con lo stesso stampo, custodito nella teca del padiglione di Breteuil, a Sèvres. Il 26 settembre 1889 il nuovo esemplare (una lega al 90 per cento di platino e al 10 di iridio) veniva consegnato al re Umberto I. Sarà uno dei simboli dell’Italia unita.

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