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Industria

Che fine ha fatto l’idea del salario minimo legale lanciata dal Pd?

Il Bloc Notes di Michele Magno, blogger di Start Magazine Adesso che il reddito di cittadinanza sembra annegato nel mare antico delle “politiche di sostegno al reddito”, forse si può tornare a parlare di cose più serie. Di salario minimo legale, ad esempio. Se ne è discusso fuggevolmente nella passata legislatura, quando il responsabile economico…

Adesso che il reddito di cittadinanza sembra annegato nel mare antico delle “politiche di sostegno al reddito”, forse si può tornare a parlare di cose più serie. Di salario minimo legale, ad esempio. Se ne è discusso fuggevolmente nella passata legislatura, quando il responsabile economico del Pd, Tommaso Nannicini, propose (con l’assenso di Matteo Renzi) di fissare la sua soglia a 9-10 euro l’ora.

Come è noto, l’idea stessa del salario minimo legale è tenacemente avversata dai sindacati, i quali temono così di essere delegittimati e svuotati di potere negoziale. In verità, essa non avrebbe senso ove fosse in vigore l’articolo 39 della Costituzione, che, conferendo rango di legge agli accordi sottoscritti unitariamente dalle parti sociali in rappresentanza della maggioranza degli iscritti, ne assicurerebbe la validità erga omnes.

Le tre grandi confederazioni, ma soprattutto la Cisl, si sono sempre opposte all’attuazione dell’articolo 39. Hanno preferito affidarsi alla prassi giurisprudenziale, che per molto tempo ha funzionato egregiamente, in un regime di sostanziale monopolio della contrattazione.

Ma oggi le cose sono cambiate. Secondo il Cnel, due terzi degli 868 contratti nazionali censiti sono “pirata”, cioè stipulati da organizzazioni non rappresentative con livelli retributivi largamente inferiori a quelli dei settori di riferimento. Una realtà a cui si aggiunge quella del lavoro sommerso, particolarmente diffuso in agricoltura, in edilizia e nei servizi alla persona. Il salario minimo può essere quindi uno strumento utile, anche se non risolutivo, per contrastare il fenomeno dei “working poor”, ossia di quelli che lavorano ma che restano ai confini della povertà.

Per funzionare, il valore del salario minimo deve essere però ben calibrato. Se troppo alto, risulterebbe infatti una forzatura per le aree più deboli. Se troppo basso,sarebbe inefficace nelle aree più forti. Due anni fa, quando se ne discusse all’interno del Jobs Act, si fece riferimento a una soglia oraria pari alla metà, o poco più, del salario mediano delle imprese italiane (il voucher attuale vale 7,5 euro netti). Mi pare questo il criterio da adottare se si vuole rendere la proposta credibile e sostenibile.

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