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Ecco tutte le piroette post voto di Mattarella, Di Maio, Salvini e Renzi

I Graffi di Damato su azioni e reazioni di Sergio Mattarella, Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Matteo Renzi nella gestione della crisi Quei due corazzieri solennemente piazzati dal cerimoniale del Quirinale davanti alla porta del presidente della Repubblica, in vista dell’annuncio della formazione del governo tecnico ed elettorale di Carlo Cottarelli, e improvvisamente allontanati…

Quei due corazzieri solennemente piazzati dal cerimoniale del Quirinale davanti alla porta del presidente della Repubblica, in vista dell’annuncio della formazione del governo tecnico ed elettorale di Carlo Cottarelli, e improvvisamente allontanati davanti alle telecamere per sopraggiunte difficoltà hanno dato il segno della imprevedibilità, drammaticità e non so cos’altro, francamente, di una vicenda politica tinta di giallo. Che non è solo il colore del Movimento delle 5 stelle, come il verde è tornato ad esserlo della Lega, ma anche quel tipo di letteratura che si occupa di delitti e trame. E’ un giallo a dir poco grottesco a quasi tre mesi ormai dalle elezioni politiche del 4 marzo e non si sa ancora bene a quanto pochi dalle elezioni anticipate messe nel conto dallo stesso presidente della Repubblica annunciando più volte, almeno due, un governo destinato a gestirle.

Il giallo di questa crisi è costituito da un intreccio di elementi che possono essere visti indifferentemente come cause ed effetti. E che provo ad elencare nell’ordine in cui mi sono apparsi evidenti.

Il primo di questi elementi è la gestione anomala della crisi da parte di chi vi è costituzionalmente preposto: il presidente della Repubblica. Egli ha obiettivamente oscillato, volente o nolente, tra il massimo della pazienza, o tolleranza, anche a costo -lo ha detto lui stesso- di incorrere in critiche e attacchi, e il massimo della intransigenza, culminata nel rifiuto di nominare un illustre economista come Paolo Savona ministro dell’Economia, con la conseguente rinuncia del professore incaricato Giuseppe Conte a formare il governo legastellato “del cambiamento”.

Non è piacevole criticare il presidente della Repubblica, che rappresenta costituzionalmente l’unità nazionale ed è la prima autorità di garanzia nel nostro ordinamento, per cui al solo nominarlo nelle aule parlamentari si rischia un richiamo del presidente dell’assemblea. E’ appena accaduto al Senato e rischia di ripetersi in quel che resterà di questa diciottesima legislatura. Ma sono incontrovertibili le sorprese, quanto meno, che Sergio Mattarella ha riservato a tutti nella ricerca di una soluzione alla crisi formalmente apertasi con le dimissioni del governo Paolo Gentiloni, subito dopo l’insediamento delle nuove Camere. Egli ha diviso su certe sue decisioni, in particolare sul rifiuto della nomina di Paolo Savona, il mondo accademico e politico dei costituzionalisti, procurandosi i dubbi, a dir poco, per esempio, del presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida. Che non credo possa essere scambiato né per un eversore né per un maleducato.

Un altro elemento del giallo grottesco, ripeto, della crisi è la spregiudicatezza tattica, ma anche strategica, dei due partiti che si sono assunti il ruolo di “vincitori” delle elezioni del 4 marzo scorso stipulando alla fine anche un “contratto” di governo: i grillini e i leghisti, nell’ordine dei voti che hanno raccolto nelle urne, e anche della disinvoltura che hanno dimostrato, peraltro scaricandosene a vicenda la responsabilità.

Il grillino Di Maio, per esempio, prima si è accodato sui giornali e nelle piazze all’iniziativa parlamentare del cosiddetto impeachment del presidente della Repubblica annunciata dalla leader della destra Giorgia Meloni, poi vi ha pubblicamente rinunciato, al primo insorgere di voci e notizie sulle difficoltà del nuovo presidente incaricato Carlo Cottarelli. E lo ha fatto accusando il segretario leghista di non essergli andato dietro, come lui aveva fatto -ripeto- rispetto a Giorgia Meloni.

Di Maio ha infine chiesto al capo dello Stato di ridare la palla della crisi ai legastellati. Roba da capogiro, con tutto quello che i capogiri spesso riescono a provocare persino a livello internazionale, finanziario e politico. Vogliamo parlare degli speculatori non scoraggiati ma attivati contro i titoli di Stato italiani dopo la decapitazione di Savona motivata proprio con la necessità di calmarli? O di quel commissario europeo al bilancio, il tedesco Gunther Oattinger, ancora al suo posto dopo avere annunciato che saranno appunto questi speculatori a determinare le scelte elettorali degli italiani? Un commissario sconfessato dal presidente della Commissione, rassegnatosi poi a scusarsi ma -ripeto- incredibilmente e provocatoriamente rimasto in carica, almeno sino al momento in cui scrivo.

Con la richiesta di Di Maio di riaprire i giochi di un governo legastellato, o altri, è tornato come uno spettro lo scenario della conclusione della prima fase della crisi. Quando Mattarella annunciò il proposito di formare un governo “neutrale” di tregua e insieme di possibile gestione di elezioni anticipate, fatto di persone impegnate con lui a non candidarsi per le nuove Camere, ma si fermò davanti all’iniziativa improvvisamente e spontaneamente assunta da grillini e leghisti di aprire una trattativa. Prima di fermò, e poi il presidente della Repubblica assecondò di fatto l’operazione concedendo tutto il tempo che via via i negoziatori del “contratto”, come se fossero degli incaricati, reclamavano con pubbliche dichiarazioni e con telefonate al Quirinale. Dove c’era sempre qualcuno pronto a rispondere.

Un altro elemento ancora del giallo della crisi è il comportamento per niente lineare del Pd. Che dopo avere ondeggiato fra aperture e chiusure ai grillini, che lo hanno considerato un forno concorrente a quello della Lega per un accordo di governo, ed avere spalleggiato Mattarella nell’operazione Savona, chiamiamola così, lo hanno politicamente scaricato nel passaggio del governo Cottarelli.

In particolare, è giunto proprio dal Pd l’annuncio di un’avarissima astensione al governo dell’economista chiamato al Quirinale per gestire le elezioni anticipate: un’astensione che, unendosi al voto contrario preannunciato praticamente da tutti gli altri gruppi o partiti, darebbe al cosiddetto Gabinetto del Presidente la fisionomia di un reietto, e non solo di un bocciato.

Come se questo non bastasse, il Pd si è unito a grillini e leghisti nel chiedere una data delle elezioni anticipate ancora più ravvicinata del “dopo agosto” annunciato da Cottarelli, chiaramente d’intesa col presidente della Repubblica, dopo avere ricevuto l’incarico di presidente del Consiglio. In questo caso si potrebbe cercare di votare tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, con quanto gradimento e quanta affluenza alle urne è facile immaginare.

Matteo Renzi, si sa, non è più il segretario del Pd. Ma si sa anche che ne rimane un po’ il regolo. Un regolo però un po’ sregolato e politicamente disinvolto pure lui, come ha appena dimostrato nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7. Dove egli ha difeso l’intangibilità, diciamo così, del presidente della Repubblica dagli attacchi di grillini, leghisti e quant’altri dimenticando le critiche mossegli dopo le elezioni del 4 marzo scorso.

Allora, riconoscendo la sconfitta elettorale subita e annunciando le dimissioni da segretario del partito, Renzi ne attribuì parte almeno della responsabilità alle elezioni anticipate rifiutategli dal presidente della Repubblica l’anno scorso, all’indomani e per effetto di un’altra sconfitta: quella nel referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale proposta dal suo governo, approvata dalle Camere ma bocciata dagli elettori.

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