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Sanzioni

Ecco chi esulta e chi sbraita per il governo Conte

I Graffi di Damato su commenti e reazioni all’insediamento del governo Conte Di tutte le foto scattate tra il Quirinale, per il giuramento del nuovo governo davanti a un presidente della Repubblica finalmente rinfrancato, e Palazzo Chigi, per l’insediamento del presidente del Consiglio, quella politicamente ma anche emotivamente più significativa l’ho trovata sulla prima pagina…

Di tutte le foto scattate tra il Quirinale, per il giuramento del nuovo governo davanti a un presidente della Repubblica finalmente rinfrancato, e Palazzo Chigi, per l’insediamento del presidente del Consiglio, quella politicamente ma anche emotivamente più significativa l’ho trovata sulla prima pagina de La Stampa. Dove Giuseppe Conte, il muovo premier, rimasto solo dopo il commiato dal conte (al minuscolo) Paolo Gentiloni, ormai nel cortile per gli onori militari e gli applausi del personale affacciato alle finestre, chiama a sé, felice e contento, i due vice presidenti Luigi Di Maio e Matteo Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico. Che hanno assistito in prima fila al passaggio della campanella d’argento del Consiglio dei Ministri dalle mani del vecchio a quelle del fresco inquilino del Palazzo.

Quel furbacchione di Vauro Senesi nella vignetta di giornata sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che sta digerendo a fatica il nuovo governo perché ne avrebbe preferito uno concordato fra i grillini e un Pd pur sconfitto e vituperato sino al giorno delle elezioni, quasi tre mesi fa, ha tradotto la situazione del nuovo presidente del Consiglio in quella collodiana di Pinocchio fra due Carabinieri. Nei quali sono riconoscibili con la matita di Vauro sia Di Maio sia Salvini. E questo senza tener conto della quarta figura in campo al vertice del nuovo governo. Che è il sempre importante e decisivo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e segretario dello stesso Consiglio: in questo caso il leghista Giancarlo Giorgetti, tanto alto e imponente quanto giulivo ed efficace nell’arte dei rapporti umani e politici. E anche in quella della distribuzione dei posti del sottogoverno, come si diceva una volta e non so come si debba dire in questa epoca di vero o presunto “cambiamento”.

Passato indenne, per influenza e bravura, attraverso tutti gli avvicendamenti anche drammatici intervenuti ai vertici della Lega, da Umberto Bossi a Roberto Maroni e infine a Salvini, che ha deciso di rimanere segretario anche ora che è pieno di impegni di governo, fra il Viminale e Palazzo Chigi, Giorgetti nella lunga crisi appena conclusa è stato sul punto di arrivare lui al posto di Conte. Ed è comparso nelle cronache dei totoministri più volte al posto del controverso o contestato Paolo Savona al Ministero dell’Economia. Dove egli si troverebbe sicuramente adesso se non avesse rifiutato per convinta e dichiarata solidarietà con l’anziano economista scambiato anche da Sergio Mattarella, a torto o a ragione, per il nemico pubblico dell’euro, dell’Unione e di chissà quant’altro. Ma non a tal punto, evidentemente e paradossalmente, da precludergli il Ministero degli Affari europei, al cui vertice Savona è stato nominato con tanto di giuramento, firma, controfirma del presidente della Repubblica sotto gli stucchi del Quirinale e scambi di ringraziamenti.

La politica, per fortuna o per disgrazia, secondo le opinioni, è anche questa: l’arte del compromesso, delle soluzioni a sorpresa, o -come mi diceva il compianto Sandro Pertini- del “resistere fino a un momento prima di cedere”, da una parte o dall’altra, o da entrambe contemporaneamente.

Ora con un governo in cui la Lega di Salvini, con quella ciliegina sulla torta che è Giorgetti al posto chiave di sottosegretario alla Presidenza, come fu il giovane Giulio Andreotti agli albori della Repubblica con Alcide De Gasperi, ha di fatto azzerato, o quasi, le pur notevoli distanze elettorali dal più votato Movimento delle 5 Stelle. Di riflesso la sinistra politica e mediatica è allarmata o addirittura piange.

L’allarme è stato gridato dal direttore della Repubblica, quella di carta, Mario Calabresi, che nel titolo del suo editoriale ha “allacciato le cinture” chiedendo ai lettori di fare altrettanto. Il pianto è quello nel quale il vignettista del Manifesto Biani ha sorpreso un’Italia tricolore ammanettata. Eppure oggi è una giornata di festa: quella della Repubblica. E della Repubblica, ripeto, vera, nata col referendum popolare del 1946 e vestita alla fine del 1947 della Costituzione ancora in vigore, tante volte venduta come “la più bella del mondo”: una Costituzione sopravvissuta alla riforma tentata da Matteo Renzi e bocciata dal sessanta per cento dell’elettorato il 4 dicembre 2016, non so francamente -a dir poco- se per fortuna o sfortuna.

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