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Aldo Moro

Caso Moro, tutto quello che ancora non torna/1

16 marzo 1978 – 9 maggio 1978. Quaranta anni fa sembra concludersi uno degli episodi più tragici nella storia della Repubblica Tragico non per il numero di morti: gli eventi di quegli anni ci hanno rapidamente portato a confrontarci con stragi a due cifre come gli 85 caduti per la bomba fascista di Bologna. Tragico…

16 marzo 1978 – 9 maggio 1978. Quaranta anni fa sembra concludersi uno degli episodi più tragici nella storia della Repubblica

Tragico non per il numero di morti: gli eventi di quegli anni ci hanno rapidamente portato a confrontarci con stragi a due cifre come gli 85 caduti per la bomba fascista di Bologna. Tragico perché quegli eventi fecero fallire il tentativo di avviare il Paese verso una vera democrazia dove due forze contrapposte potessero liberamente confrontarsi ed ambire a guidare l’Italia sulla base dei risultati delle urne e non del trattato di Yalta.

Se avesse avuto successo il tentativo di quegli anni – Moro lo chiamava “democrazia operante”, Berlinguer “compromesso storico” – entrambi i maggiori partiti di allora avrebbero subito una evoluzione ideologica che li avrebbe portati oltre i vincoli delle rispettive alleanze (e dipendenze) dalle due superpotenze mondiali. L’Italia avrebbe rotto unilateralmente il trattato di Yalta, che prevedeva l’obbligo di mantenerla ancorata al di qua della cortina di ferro a prescindere dai risultati dalla volontà popolare. Il Paese sarebbe veramente passato dalla Prima Repubblica ad una seconda fase: chiamiamola Repubblica 2.0 per non confonderla con la Seconda Repubblica – niente altro che l’agonia della Prima.

Per questo la regia, la conduzione e i depistaggi del caso Moro non sono stati mai portati alla luce nella loro interezza, nonostante sei processi, innumerevoli libri ed interviste dei protagonisti e una marea di sedute delle Commissioni Parlamentari sul caso Moro e sulle stragi degli anni di piombo.

Forse proprio per questo, tanto gli ex brigatisti quanto molti membri delle Istituzioni si affannano da 40 anni a ripetere in coro che “sul caso Moro non c’è più nulla da scoprire.” Proviamo a elencare quello che, però, ancora non torna. Riavvogliamo di 40 anni il nastro della Storia e organizziamo gli interrogativi in ordine cronologico. Torniamo indietro al 1978.

Il soggetto. I brigatisti diranno che scelgono di rapire Moro semplicemente perché Andreotti è troppo protetto. Circostanza smentita dallo stesso Andreotti che in quegli anni, tutte le mattine, molto presto e sempre alla stessa ora, va a messa da solo e a piedi passeggiando per il centro di Roma semideserto.

Il momento. I brigatisti sosterranno che è un caso che Moro sia rapito proprio mentre si reca alla Camera per dare la fiducia al quarto governo Andreotti sostenuto da una complessa maggioranza appoggiata per la prima volta anche dal PCI. Ma non è verosimile che l’appostamento in Via Fani si sia ripetuto più di una volta. Ad esempio perché soltanto la notte precedente 16 marzo le BR squarciarono tutte e quattro le gomme del Ford Transit del fioraio ambulante Antonio Spiriticchio. In questo modo, solo in quel preciso giorno gli impediscono di piazzarsi – come fa tutte le mattine – in via Fani proprio in prossimità dello stop all’incrocio con Via Stresa.

Il modo. La moglie del maresciallo Oreste Leonardi testimonierà che Moro va a passeggiare quasi tutte le mattine allo Stadio dei Marmi accompagnato dal solo caposcorta. E’ quindi inutile fermare due auto a tutta velocità e con cinque militari a bordo quando è più semplice prelevarlo nel parco semideserto vincendo la resistenza del solo Leonardi. Per non parlare dei molti fine settimana trascorsi da Moro nella casa di Terracina, spesso trascorsi a passeggio sul lungomare.

La vettura blindata. Agli atti si trovano numerose richieste del caposcorta e di Moro per la concessione di una vettura blindata. L’ultima commissione stragi il 6 dicembre 2017 ammetterà che sarebbe bastata un’auto blindata, In effetti, il 18 febbraio il colonnello Stefano Giovannone riferisce che il suo “abituale interlocutore Habbash” rappresentante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gli ha parlato di una operazione terroristica di notevole portata che sta per scattare in Italia. La segnalazione da Beirut con intestazione “Ufficio R, reparto D, 1626 segreto”, “fonte 2000” è agli atti.

Spinella troppo tardi. Il capo della DIGOS Domenico Spinella, contattato da Nicola Rana, collaboratore di Moro, la sera del 15 marzo si reca dal Presidente DC per concordare l’istituzione di un servizio di vigilanza presso lo studio di via Savoia. Spinella decide anche di attivare il servizio il 17 marzo.  Ma la sua relazione al Questore di Roma (“relazione post-datata” la definirà il presidente della Commissione Moro, Sergio Fioroni) arriverà solo undici mesi dopo: il 22 febbraio 1979. Spinella questa volta arriva troppo tardi, ma il giorno dopo arriverà troppo presto e in un episodio precedente non arriva per niente. Ne parliamo fra poco.

Radio Città Futura. Renzo Rossellini, direttore di Radio Città Futura parla ai microfoni del sequestro di Aldo Moro circa tre quarti d’ora prima del rapimento: ma la magistratura viene informata della trasmissione solo il 27 settembre 1978, quando lo rivela Famiglia Cristiana. Il vice questore Umberto Improta conosce personalmente Rossellini: lo stesso Vittorio Fabrizio, allora funzionario della DIGOS, riferirà alla Commissione che c’era da tempo un “rapporto privilegiato”. Radio Città Futura e Radio Onda Rossa – le seguitissime emittenti del movimento antagonista romano – in quel periodo sono sistematicamente ascoltate da una struttura di monitoraggio informale della Polizia. Secondo la testimonianza del funzionario Riccardo Infelisi, cugino del magistrato, sentito della Commissione, lo stesso questore De Francesco è estremamente sensibile all’ascolto delle Radio. Ma proprio quella frase di Rossellini … scappò. Per Vittorio Fabrizio, è impossibile che non sia stata ascoltata e non sia “stata portata subito a conoscenza del dirigente dell’ufficio politico”. Cioè di Domenico Spinella, di cui riparleremo ancora più oltre.

La direzione di fuoco. I terroristi diranno sempre che il gruppo di fuoco sbuca da dietro le siepi del Bar Olivetti attaccando le due auto del presidente DC dal loro fianco sinistro all’incrocio fra via Fani e via Stresa. Ma l’agente Raffaele Iozzino esce dall’auto sul lato destro e viene ucciso da sei colpi provenienti sempre dal lato destro della strada.

I vestiti da personale di volo Alitalia. Dalle siepi del bar Olivetti sbucano quattro uomini vestiti con finte uniformi Alitalia. La maggior parte delle ricostruzioni frettolose parla di uniformi da avieri, il personale di terra dell’Aeronautica Militare, che sono ben diverse. I travestiti sono i brigatisti Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisioli. Sono loro ad aprire il fuoco con mitragliatrici e pistole. Le uniformi vengono viste da diversi testimoni e uno dei terroristi perde pure il berretto e lasciandolo a terra. Perché scegliere uniformi così appariscenti che li renderanno facilmente identificabili se qualcosa andrà storto? Una spiegazione ragionevole è che non tutti i terroristi si conoscano e abbiano scelto quelle uniformi proprio per non spararsi addosso.

L’aviere biondo. Armida Chamoun, residente in Via Gradoli 96 – dove si scoprirà il covo BR – testimonierà al magistrato Antonia Giammaria che in quell’appartamento in quei giorni c’è anche un uomo biondo “con gli occhi di ghiaccio”. Il 16 marzo lo vede uscire vestito da aviere. Nessuno dei BR arrestati ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. In via Gradoli verrà ritrovato l’elenco con gli acquisti fatti per ottenere i vestiti Alitalia. In testa all’appunto una intestazione: “Fritz”. Anna Laura Braghetti sosterrà che “Fritz” era il nome in codice con cui identificavano Moro stesso.

Ne manca uno. Moretti affermerà di essere stato solo sulla 128 che taglia la strada alle auto di Moro, ma il testimone Alessandro Marini dichiara alla Polizia poche ore dopo di aver visto un secondo uomo scendere dal sedile del passeggero della 128 e fare fuoco sulla 130 di Moro da destra, cioè dalla parte opposta rispetto al gruppo di fuoco “ufficiale”.

I bossoli sul lato sbagliato della strada. I bossoli vengono raccolti anche sul Iato destro della strada, vicino alla 128 e tra questa e l’incrocio.

Morucci non convince. Nel 1987, al processo Moro ter, Morucci dice: “Poiché si erano inceppati i due mitra che dovevano sparare, usarono la pistola e probabilmente uno di questi girò intorno alla macchina portandosi quasi all’angolo con via Stresa” e sparando dal lato destro contro l’agente lozzino. Questa versione è ancora meno convincente. Sembra poco credibile che qualcuno aggiri l’AIfetta della scorta mentre è in pieno svolgimento l’azione per annientare i cinque militari correndo il rischio di incappare in una pallottola del proprio commando.

Le risultanze della perizia balistica. I periti incaricati, Jadevito, Ugolini e Lopez, nella perizia depositata il 19 gennaio 1979 scriveranno che le traiettorie dei proiettili dimostrano che a fare fuoco dalla parte dell’incrocio sono due killer, uno uscito dal lato sinistro ed uno da quello destro della 128 usata per bloccare le auto del presidente.

I Brigatisti negano. Tutti i brigatisti arrestati, soprattutto Moretti e Morucci, diranno più volte che non c’è nessuno sparatore sulla parte destra di Via Fani perché riceverebbe addosso i colpi dei quattro brigatisti che sparano dal lato sinistro dove si trova il Bar Olivetti. Ma il maresciallo Leonardi, sul sedile del passeggero anteriore della 130 di testa, si gira a sinistra per cercare di fare abbassare Moro e viene colpito più volte sul fianco destro. Dal lato dove non si troverebbe nessuno degli assassini.

Il gruppo di fuoco. Secondo le ricostruzioni e sulla base delle testimonianze confermate più volte dagli stessi protagonisti, partecipano all’agguato solo nove persone, di cui solo cinque fanno fuoco. Rita Algranati, piazzata all’inizio di Via Fani, solleva un mazzo di fiori per dare il segnale dell’arrivo del corteo e scappa su un ciclomotore uscendo di scena. Sull’incrocio con Via Stresa c’è Barbara Balzerani vestita da poliziotto con in mano una paletta per bloccare le auto in arrivo. Moretti ha accostato la Fiat 128 con targa diplomatica al marciapiede 200 metri prima dell’incrocio, sempre in Via Fani e prima di Via Sangemini. Quando vede il segnale nello specchietto esce di scatto, si pone davanti al corteo e inchioda davanti all’incrocio tagliando la strada alla Fiat 130 con a bordo il presidente. Morucci e Fiore mirano a questa con colpi singoli facendo attenzione a non colpire Moro. Intanto Gallinari e Bonisioli spararono a raffica sulla Alfetta di scorta che la segue. E quando i mitragliatori si inceppano, i due brigatisti tirarono fuori le pistole. Moretti esce dalla 128 e fa fuoco sulla 130. Intanto, alcuni passi indietro lungo Via Fani, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono escono da una 128 bianca restano pronti a intervenire. Barbara Balzerani si trova in Via Stresa su una 128 blu, sull’altro lato di via Stresa c’è Bruno Seghetti su una Fiat 132 blu.

I proiettili. In via Fani vengono rinvenuti gli 89 bossoli dei brigatisti e i 2 esplosi in risposta dall’agente Iozzino, vengono uccisi tutti i membri della scorta ma Moro, al centro della strage, rimane illeso. Si scoprirà che le munizioni – con un trattamento superficiale protettivo e senza matricola – provengono da un arsenale militare come quelli in dotazione a Gladio: i “depositi Nasco”.

Le armi. In quei tre minuti – secondo la perizia effettuata nei giorni successivi – sparano sei armi: una pistola Smith&Wesson calibro 9, che esplode 8 colpi; una pistola Beretta M51 o M52, 4 colpi; una pistola-mitra FNA-B 1943, 22 colpi; una pistola-mitra Sten oppure FNA-B 1943, 49 colpi; una pistola mitra TZ-45, 5 colpi; una pistola-mitra Beretta M12 che spara solo 3 colpi.

Le armi (bis). La seconda perizia verrà condotta nel 1993 dagli ingegneri Domenico Salza e Pietro Benedetti e si rende necessaria perché nei giorni successivi l’agguato sarà rinvenuto piantato nel bagagliaio dell’Alfetta di scorta uno strano proiettile calibro 9 corto incompatibile con tutte le armi ipotizzate nella prima perizia. Si scopre che quei 49 colpi non vengono da uno ma da due mitra FNA-B 43. La seconda perizia esclude anche la presenza di una settima arma perché stabilirà che il proiettile 9 corto identificato in seguito viene esploso da una delle armi poi sequestrate – erroneamente caricata – che si inceppa al momento dello sparo del proiettile sbagliato. Questa nuova versione stabilisce che il primo mitra FNA-B spara 19 proiettili; il secondo FNA-B, 15; la Beretta M12, 1 proiettile; il TZ-45, 5; la Smith&Wesson, 5; la Beretta M51 o M52 solo 2. Il problema non è tanto la suddivisione dei colpi fra armi compatibili fra loro: comunque ricalcoliamo i bossoli ed i proiettili cercando di assegnarli alle varie armi, il conto proprio non torna.

Il caricatore del mitra FNA-B. Non è chiaro chi impugna il mitra FNA-B che spara 49 colpi. L’arma risalente alla seconda guerra mondiale può sparare 400 colpi al minuto ed è in teoria possibile che un esperto riesca a tirare tutti quei colpi prendendo la mira in direzioni diverse – su più agenti distribuiti su due auto – in poco più di una decina di secondi. C’è un problema. I suoi caricatori possono contenere 10, 20, 30 o 40 colpi, quindi per spararne 49 occorre un cambio di caricatore in piena azione. Di questa possibile sostituzione non parla nessuno dei brigatisti, ne’ dei testimoni.

Il killer professionista. 26 anni dopo, in un’intervista, il fondatore delle BR Alberto Franceschini dirà: “un’operazione di grande portata come quella del sequestro Moro non la fai se non hai qualcuno alle spalle che ti protegge. Ai miei tempi, noi militarmente eravamo impreparati. Io conosco quelli che hanno portato a compimento l’operazione: gli unici ad avere un minimo addestramento potevano essere Morucci e Moretti.

Ma secondo me c’era una situazione generale di protezione, un contesto di cui erano consapevoli solo uno o due dell’intero commando”. E ancora: “Nel sequestro Moro furono utilizzate tecniche che non avevano nulla a che fare col nostro tipo di azione.”

I proiettili vaganti. L’Ing. Benedetti nel 2003 confermerà che per i 91 bossoli complessivamente recuperati, vengono ritrovate solo 68 pallottole. I colpi di un’arma automatica a canna lunga viaggiano a 380 m/s, ipotizzando che rimbalzino su un’auto o sulla strada, dopo il primo urto possono ancora volare lontano. In teoria, qualcuno dei colpi potrebbe essere finito disperso, ma la maggior parte dovrebbero trovarsi nelle vetture, nei corpi, sul muro di fronte al bar o nell’asfalto. Tutta l’area è stata setacciata più volte, ma sono sparite per sempre un quarto delle pallottole esplose in Via Fani.

Il colonnello Guglielmi. In Via Stresa all’incrocio con Via Fani – a pochi metri dall’agguato – si trova il colonnello Guglielmi del SISMI – la VII divisione che controlla Gladio – alle dirette dipendenze del generale Musmeci (P2, implicato per vari depistaggi e poi condannato per quello della Strage di Bologna). Giustifica la sua presenza in quel posto esatto “perché stavo andando a pranzo da un amico”. Erano passate da poco le nove di mattina.

Il Bar Olivetti. Nel 2015 alcuni testimoni dichiareranno che il bar non è affatto chiuso quel giorno, come invece hanno assunto tutte le indagini nel corso dei 37 anni successivi. Alcuni testi giurano di aver preso il caffè o di aver usato il telefono proprio nella mattina del 16. La possibilità che il bar sia aperto al pubblico il 16 marzo – nonostante fosse giuridicamente in liquidazione – introduce altri dubbi sulla dinamica dell’agguato descritta dai brigatisti. Questi sosterranno di aver atteso l’arrivo delle auto di Moro nascosti dietro le fioriere prospicienti il bar. Ma le fioriere possono offrire un riparo poco efficace a più persone destinate ad aspettare per un lasso di tempo non trascurabile, tanto più se vestite da personale Alitalia, con borse contenenti diverse armi e – soprattutto – avendo alle spalle le vetrine di un bar affollato. In tutte le immagini scattate da media e forze dell’ordine dopo l’attentato, il Bar Olivetti ha le saracinesche abbassate.

Olivetti e i Servizi. Tullio Olivetti, proprietario del bar, è già noto alla magistratura. Accusato di traffico internazionale di armi, rapporti con la criminalità organizzata, con la mafia e riciclaggio di 8 milioni di marchi tedeschi, è l’unico a uscire pulito da tutte le indagini. La Commissione Moro scrive “che la sua posizione sembrerebbe essere stata ‘preservata’ dagli inquirenti e che egli possa avere agito per conto di apparati istituzionali ovvero avere prestato collaborazione”. Nella relazione si aggiunge che la sua posizione “impone ulteriori accertamenti sull’ipotesi che fosse un appartenente o un collaboratore di ancora non meglio definiti ambienti istituzionali; sarebbe, infatti, circostanza di assoluto rilievo verificare un’eventuale relazione tra i Servizi di sicurezza o forze dell’ordine e Tullio Olivetti, titolare del bar di via Fani, 109.”

La Morris nel posto giusto. Proprio all’incrocio, a soli sei metri dallo stop e a ben 80 cm dal marciapiede destro, è parcheggiata una Austin Morris targata RM T 50354. Proprio l’ingombro prodotto da quell’auto ha bloccato la manovra di svincolo più volte tentata da Ricci alla guida della 130 di Moro. Morucci riconoscerà al processo che “la presenza casuale della Morris fu fatale”. La Morris è stata acquistata un mese prima dalla società immobiliare Poggio delle Rose con sede a Roma in Piazza della Libertà, 10; lo stabile nel quale si trova l’Immobiliare Gradoli spa, proprietaria di alcuni appartamenti di Via Gradoli, 96 e gestita da fiduciari del Servizio Segreto civile. La presenza “casuale” della Morris risulta decisiva anche per coprire chi spara da destra almeno due raffiche dirette contro l’Alfetta e quindi dalla parte opposta al gruppo di fuoco principale. Non risulta sia mai stata analizzata nei processi.

La moto Honda. L’ingegner Alessandro Marini – che è fermo all’incrocio a pochi metri dall’agguato e accorre verso le auto – viene fermato da due giovani su una moto Honda blu. Il passeggero gli scarica addosso un piccolo mitra. Marini si salva perché cadde a terra mentre arrivava la raffica. Tre testimoni confermano le sue parole. L’ingegnere segnala l’episodio solo pochi minuti dopo la strage consegnando lo stesso caricatore caduto al passeggero della moto. A terra, quindi, rimangono anche i bossoli dell’ottava arma a fare fuoco in via Fani, dopo le sei “ufficiali” e quella di Iozzino. Questa non sarà mai identificata e il caricatore non è mai stato confrontato con i mitra successivamente trovati nei vari covi. Non è chiaro se la mitragliata su Marini abbia realmente rotto il parabrezza del ciclomotore su cui si trovava l’ingegnere.

Un’altra moto. La Commissione Moro nel 2015 ascolterà due testimoni oculari, mai sentiti in precedenza. Giovanni De Chiara abita in via Fani 106 e vede allontanarsi a sinistra, su via Stresa, una motocicletta con a bordo due persone, delle quali una ha appena sparato verso qualcuno. Eleonora Guglielmo – allora ‘ragazza alla pari’ presso l’abitazione di De Chiara – sente grida ‘achtung, achtung’ e vede una motocicletta di grossa cilindrata che parte, seguendo un’auto sulla quale era stato spinto a forza un uomo, dirigendosi da via Fani in direzione opposta verso via Stresa. La motocicletta ha a bordo due persone; il passeggero ha capelli scuri, con una pettinatura a chignon e un boccolo che scende, per questo la Guglielmo ritiene che sia una donna.

 

(1.continua)

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